L’addio

L’addio

Tratto dal libro: LA MINIERA DEI BOTTONI

Tornavo dal negozio con la sporta della spesa e sbuffavo perché ancora una volta Elena l’aveva vinta su di me. Fare la spesa era sempre motivo di discussioni e litigate. Rientravo di fretta, ed ero incavolata nera.

Ciao Doretta!

Trasalii perché non avevo notato nessuno sulla strada, poi intravidi Carlo, seminascosto dalla colonna della fontana, che si apprestava a dissetarsi direttamente dalla canna. Non doveva avere una gran sete, considerata l’ora e il tempo piuttosto umido, ma lui con un piede appoggiato sul bordo e una mano sulla canna, sembrava volesse bersi tutta l’acqua. E non mi sembrava nemmeno che la sua presenza lì e a quell’ora fosse del tutto casuale. Mi stava forse aspettando? “Ciao!”, gli risposi e continuai per la mia strada.“Ma dove corri? Aspetta che ti devo dire una cosa importante”. Aveva rialzato la testa e si era asciugato la bocca con il dorso della mano. Mi guardò. “Domani parto, lo sapevi?” – “Come parti?

Davvero non lo sai? Ma forse è perché non te ne importa niente! Uno parte, se ne va e magari per sempre e a voi ragazze non vi fa né caldo né freddo, mentre io invece…” e si girò per nascondere il suo rincrescimento. A ripensarci avevo sentito delle voci che parlavano della partenza della famiglia dell’ex sindaco. Era una di quelle notizie che lasciano una certa tristezza nel cuore. Nove persone che se ne andavano da Terres non erano poche, ma in quel periodo ero troppo presa dalle mie cose per dar peso alle voci di paese. Trascorrevo quasi tutto il giorno dalla sarta che mi seguiva mentre scucivo i vestiti “dell’America”che lei avrebbe abilmente riciclato per trasformarli in un nuovo guardaroba per me. Sarei andata a studiare a Trento.

In quel periodo ero agitata, tesa, nervosa anche perché mi sentivo completamente sola. Per la prima volta affrontavo un impegno senza l’appoggio di Angela e senza di lei mi sentivo mutilata.

Io comunque mi ricorderò di te” aggiunse Carlo con un tono di voce diverso dal solito, e insolitamente confidenziale.

Ti ho guardata domenica in chiesa mentre cantavi, … ma è proprio vero che andrai a Trento a studiare?

Forse sì, – risposiperché non ne ero ancora sicura”.

Tutto dipendeva dalla disponibilità della zia perché i miei non potevano permettersi di pagarmi il collegio. “Allora forse ce ne andiamo tutte e due?” proseguii, assumendo un atteggiamento dispiaciuto. Sarebbe stata un’occasione per salutarsi e sorridersi, ma io non sorridevo quasi mai, consapevole della mia dentatura scombinata con denti che avevano seguito ognuno traiettorie diverse e un canino isolato e appuntito dove indirizzavo spesso la punta della lingua per la periodica affilatura. Gli ortodonzisti con i diabolici apparecchi raddrizzadenti, avrebbero aperto le loro camere di tortura due decenni più avanti.

E dove andrete?” chiesi appoggiando la sporta per terra e andando a mia volta a bere dalla canna, più per vincere l’imbarazzo che per la sete. “In Toscana, vicino a Firenze, dove i miei zii, hanno acquistato una grande fattoria, con una villa bellissima dove andremo ad abitare anche noi. Mio padre che è già lì, dovrà amministrare e mandare avanti l’azienda”.

Che fortunati!”, esclamai, perché non mi veniva in mente altro. Tutte quelle confidenze da parte di Carlo erano per me impensate. Perché raccontava proprio a me le sue cose? Avevo sempre guardato a lui con ammirazione, vuoi per il suo coraggio e simpatia, vuoi per l’età di qualche anno superiore alla mia, o per il fatto che era figlio del sindaco. Però lui non mi aveva mai considerata, se non per farmi capire che ero ancora piccola e che come tale, potevo anche venir presa in giro. Se lo fece però fu sempre in maniera garbata. “Buona fortuna allora e salutami tanto tutte le tue sorelle”. Alcune di loro erano mie compagne di scuola e amiche della domenica. “Ciao allora!” E afferrando decisa i manici della sporta ripresi la salita. “Non correre via dai, aspetta…” Mi girai verso di lui tenendo i manici con entrambe le mani. I nostri occhi si incrociarono, ma non mi veniva da dirgli altro. Anche qui, un bel sorriso avrebbe risolto ogni imbarazzo, ma invece ero diventata improvvisamente triste, tanto triste. Non l’avrei forse rivisto mai più. La casa vicino alla fontana, che traboccava di bambini di tutte le età, la casa che aveva una facciata a sud perennemente ricoperta da fili con panni stesi ad asciugare, la casa dalle cui finestre uscivano pianti, sgridate, risate, allegria, avrebbe chiuso le imposte verdi e sbarrato la porta d’ingresso. Il piccolo piazzale davanti sarebbe diventato uno di quei posti dove veniva ammassato il legname o i vecchi carri e attrezzi inutilizzati in attesa di esecuzione. Sapevo che ogni casa che veniva chiusa rimaneva tale per sempre a parte qualcuna che riapriva le finestre nei mesi estivi per offrire ai proprietari un periodo di vacanza nel vecchio paese. Un’angoscia mai provata fino allora invase il mio cuore. Carlo mi stava ancora davanti, ma io guardavo per terra. “Ti è caduta una lacrima sulla scarpa, – osservò tu piangi sempre quando ti guardano”.  Con un’osservazione simile, non mi rimaneva che piangere davvero. Feci nuovamente per avviarmi, tenendo la testa ancora più china e gli lanciai senza girarmi un “Addio Carlo!” – “Ma che fai, te ne vai così senza salutarmi come si deve?” mi gridò, rincorrendomi fino a superarmi di alcuni metri. Si fermò un attimo, poi si girò di scatto e mi venne incontro con passo sicuro e baldanzoso, l’aria ironica com’era nel suo stile. Era già sceso il buio, le luci comunali non erano ancora state accese e mancava pure la luna. Sentivo il respiro vicino e il suo corpo che emanava calore, energia e gioia di vivere. Le lacrime cessarono e il buio mi aiutò a fare un’eccezione alla regola, cioè a sorridere. Sorrisi nel buio e lui se ne accorse. Avanzò ancora di un passo verso di me, mi agguantò le spalle e mi tirò a sé per baciarmi, ma io mi ritrassi e mi divincolai con forza. Lo ammetto, mi sarebbe piaciuto sentire l’effetto di un bacio che non avrebbe potuto che essere solamente sulla guancia. Io, come quasi tutte le ragazze della mia età a quei tempi, per bacio intendevo solo quello sulle guance, perché dai film non avevo potuto imparare nulla a riguardo, considerato che l’unico che avevo visto era quello di “Marcellino pane e vino” che parlava sì di amore, ma verso Gesù Crocifisso. “Ma sei matto?” riuscii a dirgli e mi finsi risentita. “Quante storie per un bacetto!” e si finse offeso.

Comunque sappi che io fra qualche mese ritornerò a Terres e con la macchina! Spero che allora non mi negherai un bacio, ma di quelli veri! Intanto pensami, che ti penserò anch’io!

E mi seguì con lo sguardo finché girai l’angolo. Quel colloquio mi scombussolò tutta. Inutile dire che avevo provato una piacevole sensazione, ma non mi pareva di sentirmi innamorata. Mi mancava quel caratteristico formicolio allo stomaco, l’inappetenza tipica che aveva caratterizzato il mio precedente sfortunato innamoramento. Ma Carlo era pur sempre il primo ragazzo che aveva desiderato baciarmi, che mi pensava, che aveva promesso che sarebbe venuto a cercarmi. Non potevo non sentirmi legata a lui, ormai… E cominciai a sognare. Successero tante cose quell’anno, ma il ricordo di quel momento alla fontana, della richiesta di un bacio forse anche desiderato, ma non concesso, la consapevolezza che qualcuno pensava a me e mi stava aspettando mi fu spesso di conforto e mi aiutò a superare momenti di grande sconforto. Rividi Carlo solamente quindici anni più tardi e solo allora seppi da lui stesso che la scena di addio alla fontana si era ripetuta nella stessa serata altre due volte con due ragazze diverse tra cui Angela che non mi disse mai niente per paura che io ci rimanessi male. Mi confessò che prima di partire per la Toscana voleva fare le prove di avvicinamento di una ragazza.

Tu eri stata la terza vittima casuale caduta nella rete”. “Sì e dopo due prove, la parte ti era riuscita talmente bene che io ci ero cascata in pieno!

(Continua il mese prossimo…)

Antonietta Dalpiaz Breda