Là dove pascolavano le vacche

Là dove pascolavano le vacche

È arrivata l’estate e con essa si rinnova l’antica usanza della pratica dell’alpeggio

Da secoli, l’alpeggio rappresenta molto più di una semplice attività pastorale: è cultura, identità, tradizione. Generazioni di allevatori hanno vissuto l’altura, le nostre montagne, come un rituale collettivo, dove il lavoro si intreccia al paesaggio, alla biodiversità e alla cura del territorio. In montagna, ogni malga è una storia che si tramanda, ogni pascolo un frammento di memoria viva.

In Trentino le malghe censite sono più di 700; tuttavia, solamente 320 sono attualmente attive Restringendo il campo al nostro territorio, le malghe monticate sono 34 su un totale di 55, caricate con manze, vitelli, cavalli, asini, capre e pecore. In Val di Non i pascoli si estendono su 3000 ettari con circa 2000 unità di bovino adulto portate in alpeggio: ogni animale può quindi usufruire di un’ampia superficie, pari a circa 15.000 m², in netto aumento rispetto al passato, dove la maggior monticazione determinava poche migliaia di metri quadrati a disposizione per ciascun capo. Nel tempo, anche la composizione del bestiame portato in alpeggio è cambiata in modo significativo. Dei circa 2000 animali monticati nella stagione corrente, oggi solo una piccola parte – appena 200 esemplari – sono vacche da latte. Un numero limitato, che racconta meglio di mille parole come stia mutando l’equilibrio dell’allevamento in quota. Accanto alle attività tradizionali, alcune malghe hanno saputo reinventarsi, affiancando all’allevamento servizi di agriturismo, ristorazione e vendita diretta di prodotti tipici. Un modo concreto per tenere vivo il legame tra uomo, montagna e territorio, trasformando la fatica in accoglienza e la tradizione in valore aggiunto.

Eppure, dietro ai numeri si cela una realtà che non può essere ignorata: l’abbandono silenzioso dei pascoli, la chiusura progressiva delle malghe, il venir meno di una cultura millenaria fatta di lavoro, dedizione e armonia con la natura. È un campanello d’allarme che solleva interrogativi urgenti: perché stiamo perdendo l’alpeggio? Cosa ci spinge ad allontanarci da una risorsa così preziosa? E soprattutto: abbiamo ancora il tempo e gli strumenti per invertire questa rotta?

Su questo tema ho intervistato il presidente della Federazione Provinciale Allevatori, Giacomo Broch.

Presidente Broch, quali sono le principali sfide e problemi che riguardano oggi gli alpeggi?

In questa fase storica la pratica dell’alpeggio sta diventando più un problema che un’opportunità. Il legame con le terre alte da parte degli allevatori è ancora intatto e la passione è ancora elevata, ma l’emergere di nuove problematiche ad iniziare dalla burocrazia e dal peso degli adempimenti amministrativi, unitamente al venir meno dell’attenzione

da parte delle amministrazioni locali, delle stesse ASUC e della Provincia autonoma di Trento, ha reso particolarmente difficile la gestione di queste strutture. Se poi aggiungiamo le difficoltà legate alla presenza dei grandi carnivori così come quelle riferite al reperimento della manodopera si delinea un quadro non certo incoraggiante per portare avanti questa pratica secolare.

Sono queste, in sintesi, le ragioni che stanno portando al progressivo abbandono degli alpeggi, fenomeno che possiamo definire irreversibile in quanto una malga abbandonata una volta lo è per sempre.

Quale dovrebbe essere l’atteggiamento delle istituzioni per invertire questa tendenza?

Innanzitutto è necessario uscire dalla spirale secondo la quale la malga dovrebbe rappresentare una voce di entrata attraverso gli affitti. Non possiamo pensare di guardare alla gestione degli alpeggi unicamente attraverso la lente economica come se si trattasse di una voce per fare bilancio. Dobbiamo invece pensare a nuovi investimenti dedicati alla manutenzione e ristrutturazione, interventi strutturali, messa a norma e innovazione di spazi che necessitano di una cura continua, specie se consideriamo le problematiche legate alla sanità e alla lavorazione a latte crudo. In verità va detto che la Provincia si è mossa su questo terreno, e mi riferisco alla messa a norma delle casere con un bando specifico, ma al momento attuale abbiamo bisogno di interventi di rilancio molto più importanti che consentano la realizzazione di un programma di rinascita complessiva dell’alpicoltura.

A tutto questo si aggiungono le incognite riferite alla presenza dei grandi carnivori. Come uscirne?

L’amministrazione provinciale è intervenuta con alcuni provvedimenti specifici quali le recinzioni, altri sistemi di difesa attiva delle mandrie e l’utilizzo dei cani da guardia che hanno consentito di attutire il colpo, ma non hanno risolto il problema. Dobbiamo invece consentire soluzioni più radicali nei confronti di quelle situazioni relative a casi problematici che ostacolano la convivenza fra le mandrie e i carnivori. L’abbandono delle terre alte da parte di pastori e malgari è una conseguenza diretta della presenza ormai fuori controllo di orsi e lupi ed è qui che è necessario intervenire al fine di salvaguardare la vita degli animali alpeggiati e la sicurezza degli operatori.

Quali valori rappresentano gli alpeggi per il settore zootecnico?

Intanto c’è un legame storico che caratterizza la nostra identità. Basti pensare che la stessa parola alpeggio ha un diretto riferimento alle Alpi, fatto questo che indica in questa pratica atavica una fonte identitaria e storica davvero importante. In secondo luogo la malga rappresenta, oltre a un grande giacimento di biodiversità, anche una grande risorsa per il benessere degli animali, fattori che si aggiungono alla malga come grande scrigno gastronomico con prodotti quali formaggi freschi e stagionati, burro, ricotta, ma anche speck e altri salumi, che rappresentano dei veri e propri top di gamma per il Trentino turistico.

Le malghe sono dunque una risorsa per il turismo?

Il settore turistico si è accorto, forse troppo tardi dell’importanza delle malghe per gli ospiti che frequentano la nostra provincia ed oggi ci si meraviglia che le stesse vengano abbandonate. Anche per questo dobbiamo riconoscere al nostro settore e agli alpeggi quella centralità nell’agenda politica che ancora manca.

Cosa perderebbe il Trentino se le malghe venissero completamente abbandonate?

Perderebbe tantissimo sia sotto il profilo ambientale, ma anche a livello politico se pensiamo che l’alpeggio è anche un simbolo delle capacità di autogoverno del territorio, delle proprietà collettive e quindi della stessa Autonomia trentina. Mentre nelle regioni ordinarie gli alpeggi sono in crisi, nei Land, nelle regioni e nelle provincie autonome sono invece stati conservati grazie alla responsabilità dei governi centrali e delle amministrazioni locali. Dobbiamo pertanto affrontare la questione delle malghe non solo attraverso la lente di una gestione ordinaria e di settore, ma collocare le politiche negli alpeggi al centro delle strategie di rilancio delle terre alte intese come simbolo dell’Autonomia e del buon governo della montagna.

Conclusioni

L’alpeggio, con tutta la sua storia, la sua cultura e la sua profonda radice identitaria, rappresenta oggi una sfida cruciale per il Trentino. Mentre la tradizione si confronta con problemi concreti come la burocrazia e la presenza dei grandi carnivori, diventa fondamentale trovare soluzioni che consentano di preservare e rilanciare questa pratica millenaria.

Le malghe non sono solo luoghi di lavoro e produzione, ma veri e propri custodi della biodiversità, del paesaggio e di un patrimonio gastronomico unico. La loro sopravvivenza è dunque anche un segno di rispetto verso la nostra identità, la nostra autonomia e il nostro futuro.

“Nel prossimo numero cercheremo di approfondire questi temi con i funzionari del Servizio Agricoltura – ufficio agricolo periferico di Cles, per mettere a confronto i dati raccolti e analizzare in particolare cosa prevede la Politica Agricola Comunitaria sul tema degli alpeggi, esplorando così le opportunità e le strategie che potrebbero favorirne un rilancio concreto.”

Michele Odorizzi