Radic de l’ors

Radic de l’ors

Una prelibatezza sempre più a rischio

Verso maggio, quando la neve in alta quota si ritira dalle montagne dell’arco alpino, una delicata primizia fa capolino nei terreni appena riemersi, talvolta bucando la sottile coltre bianca: si tratta della Cicerbita alpina (Lactuca alpina L.), meglio nota come “radicchio dell’orso”, pianta spontanea perenne della famiglia delle Asteraceae, tipica delle Alpi ma presente anche nel resto d’Europa, sempre in ambiente d’alta montagna.

Commestibile e molto pregiata per il suo sapore particolare ed amarognolo, simile a quello del Tarassaco (cui somiglia anche per la forma delle foglie), la Cicerbita sta diventando sempre più ambita a causa della sua crescente rarità: si trova infatti solo ad altitudini elevate, e se un tempo in Val di Non la si incontrava facilmente sopra i 1700 metri, oggi bisogna spingersi anche sopra i 1900.

La Cicerbita matura tra primavera ed estate ma il periodo della raccolta cade verso maggio, allo sciogliersi della neve, ed è molto limitato (2/3 settimane): infatti della pianta si raccoglie e si mangia il tenero germoglio, di colore chiaro-violetto, fino a quando raggiunge i 10 cm circa, poiché quando cresce oltre, assume un sapore eccessivamente amaro.

La pianta adulta invece può raggiungere anche il metro e mezzo, ha fusto eretto e fiori di colore azzurro violaceo.

Usata fondamentalmente a scopo alimentare (ma ha pure proprietà diuretiche e depurative), la Cicerbita va sempre bollita per far perdere un po’ dell’amaro; solitamente viene conservata sott’olio, in vasetto, ma se ne produce anche una deliziosa salsa, impiegando anche le piante più grandi.

Mi sono imbattuto per la prima volta in questo radicchio d’alta quota in Val di Daone, nelle Giudicarie, dove la Cicerbita – chiamata dai locali “radic de l’ors” – era da tempo conosciuta. Il soprannome deriva dalla credenza che quest’erba fosse particolarmente apprezzata dagli orsi al loro risveglio dal letargo, ma in realtà tutti gli animali sembrano gradirla.

Più tardi, verso la metà degli anni ’70, ho ritrovato la Cicerbita in due diverse zone della Val di Tovel: nella località della “Gola” e presso la località “Malgiar”, vicino a Malga Tuena. Entrambe si trovano sul versante Sud rispetto al Monte Peller, e sono quindi piuttosto soleggiate. Verso gli anni ’90 in quelle zone la Cicerbita alpina si è totalmente estinta. Se ne trovava invece ancora in abbondanza in altre parti del Peller, limitatamente al versante Nord, cioè alla zona più in ombra. Ma intorno al 2005 ho notato che anche lì le piante di radicchio dell’orso iniziavano a scarseggiare, tendenza che è andata via via peggiorando negli anni successivi. Lì dove un tempo se ne trovavano macchie rigogliose, composte da molte piante vigorose e forti, ora se ne incontrano solo esemplari sparuti, sempre più piccoli e radi. Inizialmente, volendo trovare una spiegazione al fenomeno, ne ho attribuito la causa al fatto che la zona dove cresceva il radicchio, dalla parte di Tuenno e Tassullo, era ampiamente sfruttata come pascolo per le capre e, in certe parti, anche per i cavalli.

Ho quindi immaginato che la sua sparizione fosse dovuta ad un consumo eccessivo da parte di questi animali, che nutrendosi ripetutamente dagli stessi germogli ne impedivano la ricrescita, portando le piante ad indebolirsi fino a sparire. L’anno scorso però, camminando nelle zone sotto “Malga Malgaroi”, dove le capre e i cavalli non pascolavano, ho trovato una situazione non dissimile: pure lì il radicchio dell’orso iniziava a scomparire, proprio come nelle zone sopradette.

Così ho dedotto che il fenomeno non si poteva attribuire, se non parzialmente, al pascolo di mucche, asini, cavalli e capre, ma neppure ad uno sfruttamento eccessivo da parte dell’uomo: se è pur vero infatti che negli anni la raccolta, un tempo praticata solo per autoconsumo, si era fatta sempre più indiscriminata, va però ricordato che in tempi più recenti essa è stata conseguentemente regolamentata (nel 2009, per quanto riguarda la Provincia di Trento), e la pianta inclusa tra le specie protette: in Trentino la raccolta è attualmente limitata ad un massimo di 2 kg a testa al giorno.

Scartate queste ipotesi, la spiegazione più verosimile è ricaduta sugli effetti del cambiamento climatico. Il graduale innalzamento della Cicerbita andrebbe dunque ad aggiungersi alle tante evidenze simili già riscontrate in diverse specie vegetali (come l’Asparago selvatico, lo Spinacio di montagna ma anche gli stessi funghi) e animali. Oggi la Cicerbita è sparita da un’area equivalente ad almeno 200 ettari, e non è più presente sotto i 1850-1900 metri. Invece sopra i 1900 metri, sul versante Nord del Peller, la pianta cresce ancora bene, ma il suo territorio si è inequivocabilmente ridotto. Trattandosi di una pianta rara, questa specie andrebbe ancor più tutelata da amministrazioni ed enti per la tutela ambientale: altrimenti il rischio concreto è quello dell’estinzione della pianta. Sarebbe auspicabile un’ulteriore limitazione alla raccolta, e finanche il divieto assoluto, visto che se spesso i limiti vengono purtroppo violati. In Friuli-Venezia Giulia, ad esempio, la specie è oggi Presidio Slow Food. Oltretutto bisogna stare molto attenti a riconoscerla, perché ha un pericoloso antagonista che condivide lo stesso habitat, l’Aconito napello (Aconitum napellus L.): si tratta della pianta più velenosa delle nostre montagne e di tutto l’arco alpino (ne basta una foglia per avere conseguenze gravi, anche letali), e il suo germoglio, soprattutto quando è tra la neve, diventa rossiccio proprio come quello della Cicerbita alpina, pertanto chi non è esperto potrebbe confonderle.

Fero Valentini