Taiwan

Taiwan

Un paese fondamentale per l’economia globale

In questi mesi si sente spesso parlare dell’isola di Taiwan con riferimento alle recenti tensioni tra Cina ed USA. Abbiamo quindi deciso di dedicare un approfondimento a questo tema evidenziando i fatti storici, la specializzazione industriale di questo paese ed i motivi che portano ad una tensione tra USA e Cina.

Riepilogo storico

Per capire la contesa cinese su Taiwan, occorre rifarci alla storia recente. Correva l’anno 1949 quando con la vittoria dei comunisti, Mao obbliga Chiang Kai-shek a rifugiarsi sull’isola, tornata nel 1945 sotto la sovranità cinese dopo 50 anni di colonialismo giapponese. La stima è che circa due milioni di rifugiati cinesi tra civili, militari e personale governativo siano sbarcati sull’isola portando oro, valuta straniera e oggetti di valore trafugati dalla Città Proibita. L’8 dicembre 1949 Taipei viene riconosciuta come capitale provvisoria della Repubblica di Cina in esilio. Taiwan ha la benedizione degli Stati Uniti, mentre la Cina di Mao fatica a crearsi nuovi alleati. Il 1971 è l’anno della svolta, quando Taipei perde il seggio alle Nazioni Unite a favore della RPC. L’umiliazione per la classe dirigente taiwanese è grande, ma lo spazio di manovra si è ridotto ancor di più nel 1978, quando il presidente Carter annuncia la fine dei rapporti diplomatici tra Stati Uniti e Taiwan. L’isolamento internazionale si accompagna però a una rapida industrializzazione che fa di Taiwan una della quattro tigri asiatiche, insieme a Corea del Sud, Hong Kong e Singapore. Anche la coscienza politica sembra cambiare e dalla fine degli anni Settanta iniziano a germogliare i primi semi della democrazia che porteranno alla fine della legge marziale nel 1987 e successivamente, nel 1996, alle prime elezioni dirette con la vittoria di Lee Teng-hui. Solo quattro anni dopo, nel 2000, un’altra scossa politica colpisce l’isola. Chen Shui-bian del Partito progressista democratico vince le elezioni, mettendo la parola fine a oltre 50 anni di Governo ininterrotto del Kuomintang. Intorno alla fine degli anni ottanta, le relazioni tra Pechino e Taipei sono ad una svolta, per lo meno in termini economici e di scambi commerciali. Nel 1992 viene stabilito il Consensus nel quale entrambe le parti concordano di aderire al principio di “una sola Cina”. La divergenza è sul significato comune da attribuirle. Un “consenso senza consenso”, per usare le parole dell’economista Lee Teng-hui. Da allora il Consenso del 1992 e il principio di “una sola Cina” sono i punti sacri di Pechino per intavolare qualsiasi trattativa per risolvere pacificamente la questione Taiwan. Per la leadership comunista la mancata adesione a questi principi è una delle più grandi colpe dell’attuale Presidente taiwanese Tsai Ing-wen. Il disegno di Xi Jinping è chiaro: riportare la Taiwan sotto il controllo di Pechino entro il 2049, restituendo così al Paese la sua passata gloria imperiale.

L’economia                                

Oggi l’isola è a pieno titolo riconosciuta come una delle quattro tigri asiatiche insieme a Hong King, Singapore e Corea del Sud. Nel 2022 l’ufficio statistico di Taiwan stima un reddito pro capite di 35.000 dollari circa, che risulta il triplo della media mondiale e in linea con quello di paesi come Francia, Italia e Spagna.

Uno dei pilastri fondamentali di questo successo è la forza di Taiwan nell’innovazione e nella leadership tecnologica. Il paese spende mediamente il 3,5% circa del PIL in attività di ricerca e sviluppo (superato solo da Israele e Corea) e vanta uno dei tassi di produttività del lavoro più elevati al mondo.

L’economia di Taiwan è fortemente orientata all’export. Nel 2021 il totale delle esportazioni di beni si è attestato a 347 miliardi di dollari, mentre le importazioni sono ammontate a 287 miliardi di dollari. I beni ad alta tecnologia come le attrezzature e i macchinari elettrici, gli apparecchi meccanici e le attrezzature ottiche e mediche rappresentano più di due terzi delle esportazioni taiwanesi. I consumi privati costituiscono solo il 44% del PIL di Taiwan. La Cina è di gran lunga il più importante partner commerciale di Taiwan, con una quota che nel 2021 rappresentava oltre il 26% del commercio totale. Al secondo posto ci sono gli Stati Uniti con il 13%, seguiti da Giappone con l’11%, Unione Europea e Hong Kong, entrambi all’8%.

In un paese fortemente orientato all’export, la prosperità economica dipende ovviamente dal resto del mondo. Che si tratti dell’importazione di materie prime per lo più carenti a livello locale, del turismo o della sua dipendenza dall’esportazione di circuiti elettronici e semiconduttori, il paese ha bisogno di una robusta economia globale e di meccanismi commerciali funzionanti. Tuttavia, è vero anche l’opposto, in misura persino maggiore, ovvero che il mondo dipende da Taiwan.

Leader nella produzione di semiconduttori di qualità

In quest’ottica Taiwan occupa una posizione strategica nella catena di fornitura globale per esempio dei semiconduttori. Esiste una società a Taiwan che produce oltre il 90% dei chip più sofisticati al mondo: Taiwan Semiconductor Manufacturing – TSMC. Chip che hanno transistor che sono meno di un millesimo della larghezza di un capello umano. Samsung fa il resto del mercato. Pensiamo che la maggior parte dei 1,5 miliardi di processori per smartphone in tutto il mondo sono realizzati da TSMC. Sono così tecnologicamente avanzati che se un paese volesse eguagliare TSCM e Samsung dovrebbe spendere almeno 30 miliardi l’anno per i prossimi 5 anni. Vista la carenza mondiale di chip, l’amministrazione Biden investirà nei prossimi anni decine di miliardi di dollari per sostenerne la produzione. In base alla legislazione, anche TSCM potrà beneficiare di tal fondi (visto che ha una fabbrica nello stato di Washington). La questione è comunque aperta visti i rapporti tra Cina, che considera Taiwan parte del suo territorio, e USA. Alla fine del 2021, ad esempio, TSMC ha annunciato la costruzione di un nuovo impianto a Phoenix, Arizona per la tecnologia a 5 nanometri, che costerà 12 miliardi di dollari e non entrerà in produzione fino al 2024. Nel frattempo, tutta la capacità produttiva di 5 nanometri e 3 nanometri di TSMC è a Taiwan, e anche lì verrà costruito il suo primo impianto a 2 nanometri.

Secondo il World Fab Forecast trimestrale pubblicato del 13 giugno, Taiwan dovrebbe guidare la spesa globale per le apparecchiature di produzione di semiconduttori quest’anno, con un aumento del 52% a 34 miliardi di dollari. La Corea del Sud arriverà al secondo posto con un aumento del 7% della spesa di 25,5 miliardi di dollari, la Cina terza con 17 miliardi di dollari e il Nord America al quarto con 9,3 miliardi di dollari. Si prevede che la spesa totale del settore aumenterà del 20% raggiungendo la cifra record di 109 miliardi di dollari.

Queste cifre mettono in luce le altissime barriere all’entrata nel settore e, dato il breve ciclo di vita dei semiconduttori, le imponenti risorse necessarie per competere. Visti gli imponenti costi iniziali sostenuti per la creazione di strutture che iniziano a generare cash flow solo molti anni dopo, possibilmente ad un ciclo ridotto, le imprese di minori dimensioni sono chiaramente tagliate fuori dal settore.

Gli USA sono ancora leader nel mondo nella progettazione di chip e nella proprietà intellettuale con società che si chiamano Intel, Nvidia e Qualcomm, che a fine 2021 rappresentavano il 10% della produzione mondiale di chip (in calo dal 37% del 1990), ma che non sono tecnologicamente all’avanguardia come quelli prodotti da TSMC. Mezzo mondo corteggia Taiwan che, non a caso, è il Paese con il maggior numero di titoli tecnologici quotati nei listini di borsa. Taipei si difende, ha ripreso il controllo del business della sicurezza e gestione dei dati, riportandoli in patria. Ma per il resto attacca e fa affari ovunque. Esporta tecnologia ma controlla anche il 10% circa della flotta commerciale mondiale. Ha due porti tra i più grandi del mondo, Kao-hsiung e Taipei.

Stati Uniti e Cina hanno un interesse vitale a che le operazioni nello Stretto di Taiwan si svolgano senza intoppi. Taipei, dal canto suo, esercita un notevole soft power nel Mar Cinese Meridionale. L’Australian Strategic Policy Institute stima che circa un terzo della navigazione globale – e dunque quasi un quarto dell’intero commercio globale in termini di volumi – passi da lì.

Recenti tensioni tra USA e Cina

Come noto non corre buon sangue tra USA e Cina. E da questo non può arrivare nulla di buono per l’industria dei semiconduttori. Non più tardi del 7 ottobre scorso con una manovra a tenaglia l’Ufficio per l’industria e la sicurezza (BIS) parte del Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti, ha annunciato l’inserimento di altre 31 entità cinesi nella lista delle aziende “non verificate”, oltre a nuove restrizioni sull’export di tecnologia avanzata verso la Cina. Ma ad essere colpite non sarebbero solo le compagnie cinesi. La “chip war” tra Pechino e Washington rischia di avere effetti globali. E’ chiaro che le ultime misure annunciate dall’amministrazione Biden per contenere l’ascesa tecnologica della Cina avranno un effetto domino sulla filiera mondiale. Una filiera di cui Taiwan rappresenta uno snodo cruciale. Se applicate alla lettera, le nuove misure daranno un colpo mortale all’industria cinese dei semiconduttori e ai piani di sviluppo di Pechino. Il problema è che solo la Corea del Sud possiede la stessa tecnologia, ma non ha la potenza di fuoco della produzione che può vantare Taiwan.

Numerosi sono gli analisti che giudicano la manovra di Biden alla stregua di un’escalation: un conto è colpire singole aziende, come ha fatto Donald Trump con Huawei e ZTE, un altro è invece applicare restrizioni generalizzate su tutto il settore. La Cina consuma più di tre quarti dei semiconduttori venduti a livello globale, ma conta solo per il 15% circa della produzione mondiale. Per compensare le proprie mancanze, la seconda potenza mondiale si rivolge principalmente a Corea del Sud, Paesi Bassi e Taiwan, che da sola soddisfa il 90% della domanda mondiale di chip avanzati. Ma che a sua volta fa ampio uso di tecnologia americana per produrre tali chip (é un caso la visita della Pelosi a Taiwan?). Secondo ICwise, la Cina è il primo mercato per tre dei maggiori fornitori statunitensi di apparecchiature per semiconduttori, rappresentando il 33% delle entrate di Applied Materials Inc., il 35% di Lam Research Corp. e il 26% di KLA Corp. Nel 2020, all’acme della trade war tra le due superpotenze, una ricerca condotta da SIA e Boston Consulting Group stimava che un divieto totale delle vendite di semiconduttori ai partner cinesi ridurrebbe del 37% le entrate delle aziende USA.

I tentativi di Washington di istituire un’alleanza transpacifica dei chip (la Chip 4) in chiave anti-cinese ha incontrato una risposta tiepida sul lato asiatico dell’Oceano. Solo pochi giorni fa, il Ceo di TSMC ha annunciato che il colosso taiwanese ha ottenuto una licenza che gli permetterà di continuare a operare in Cina per un anno, nonostante le direttive di Biden. Lo stesso è avvenuto con la sudcoreana SK Hynix. Ma restano validi i divieti sulla cooperazione tra TSMC e i giganti americani Nvidia e Advanced Micro Devices nel mercato cinese.

Quindi tutto il mondo di fatto pagherà a caro prezzo la stretta protezionistica di Washington.

Capitale: Taipei

Area: 36.197 km²

Popolazione: 23,57 milioni (2020)

Valuta: Dollaro taiwanese

Lingua ufficiale: Cinese mandarino

Se facciamo un confronto con la Sardegna, Taiwan è grande solamente 1,5 volte la nostra isola e ha oltre 14 volte gli abitanti (Sardegna 1,6 mln abitanti).

Paolo Leonardi