Erbe spontanee e germogli in cucina

Erbe spontanee e germogli in cucina

“é primavera, svegliatevi bambine, alle cascine, messer Aprile fa il rubacuor”… canticchiava Alberto Rabagliati. Io, più prosaicamente, aggiungo: svegliatevi buongustai poiché la primavera, non più maledetta – come cantava Loretta Goggi – offre agli amanti della buona tavola una ghiotta occasione per assaggiare le bontà primaverili che Madre Natura ci regala.

Presentando un mio libriccino “Cucina Trentina” (casa editrice Panorama, 2010) scrivevo: “Possono i germogli d’ortica, i bruscandoli, il tarassaco, gli spinacini di montagna, gli asparagi selvatici, il topinambur e le altre mille erbe spontanee che crescono nei nostri prati rendere un piatto straordinario? Senz’altro sì, purché le varie pietanze siano preparate con amore per il territorio, poiché la cucina, come ha confessato in una recente intervista anche Massimo Bottura del ristorante tristellato “La Francescana” di Modena, è soprattutto un gesto d’amore. Come dargli torto?

Ho citato le ortiche poichè conservo il ricordo di uno dei piatti più poveri della cucina trentina: la minestra di ortiche, assaggiata 50 e più anni fa a Rovereto nella «cambusa» di Gigi Caresia (il «Pellegrino Artusi del Trentino») con dei crostini di pane e un filo d’olio extravergine del Garda. Un piatto sublime che Caresia interpretò con il tocco magico dei grandi chef. Cosiccome non posso non citare le frittate e i risotti con i germogli di ortica proposti in primavera da uno dei cuochi trentini dell’Alleanza Slow Food, Fiorenzo Varesco, patron dell’Antica Osteria Morelli di Canezza, in Valle dei Mòcheni.

Il poeta francese Victor Hugo paragonava l’ortica all’essere umano, affermando che “non esistono cattive erbe e nemmeno cattivi uomini, ma solo cattivi coltivatori di entrambi i generi, poiché l’ortica se trascurata è nociva, al pari degli uomini che, se trascurati, possono diventare pericolosi per la società”.

In natura esistono numerosissime erbe spontanee, ricche di vitamine e sali minerali, che possono essere utilizzate per preparare piatti sfiziosi ed originali. Già nel Settecento il naturalista Giovanni Targioni Tozzetti, uno dei soci fondatori dell’Accademia dei Georgofili, nonché medico di corte dei Granduchi di Toscana, scrisse l’«Alimurgia”, un libro dedicato allo studio delle erbe selvatiche. Una scienza antica oggi ribattezzata con termine inglese “foraging”.

Nell’antica Roma si mangiavano oltre 200 varietà di verdure. Oggi al supermercato ne troviamo cinque-sei di stagione. Ritrovare i sapori delle erbe spontanee è un modo per riappropriarci di conoscenze antiche che fanno parte della nostra tradizione e riportare in tavola un ingrediente che racconta la nostra storia e quella della nostra famiglia. Ma con una raccomandazione, tiene a precisare l’esperta di botanica Sandra Ianni: “Quando raccogliamo nei prati e nei boschi le erbe spontanee non dobbiamo esagerare. é un delitto portare a casa grandi quantitativi di erbe per poi lasciarle appassire perché non abbiamo il tempo di cucinarle, privando api ed insetti del nettare più importante per la loro e la nostra vita. Bisogna essere parsimoniosi, solo così possiamo preservarne la biodiversità”.

Eleonora Noris Cunaccia, titolare del laboratorio artigianale “Primitivizia” di Spiazzo Redena, la mitica Signora delle Erbe (i suoi prodotti sono presenti nei più esclusivi ristoranti stellati d’Italia) è prodiga di consigli.

Dobbiamo prestare la massima cautela nella raccolta e nel consumo delle erbe selvatiche che raccogliamo in montagna, nei prati, lungo i ruscelli, poiché alcune specie edibili possono essere confuse con altre che invece sono nocive. L’ideale, nelle nostre prime uscite e fino a quando non abbiamo acquisito una certa sicurezza, è farsi accompagnare da un esperto che ci faccia da guida. In molti casi, le erbe si somigliano molto e alcune specie sono tossiche. Porto l’esempio del delizioso aglio orsino che ha delle somiglianze con il mughetto e il colchico autunnale, che sono entrambe piante velenose. Cominciamo a raccogliere un’erbetta alla volta, in modo da riconoscerla bene. Poi potremo passare ad un’altra specie”.

E conclude: “La natura è una dispensa da preservare con cura e non uno scaffale da saccheggiare. Quindi evitiamo comportamenti scorretti e accontentiamoci di ciò che realmente ci serve. Inoltre, rispettiamo le regole non cogliendo le specie protette e informiamoci sulle leggi che regolano la raccolta”. Parole sante.

Due parole sul taràssaco, pianta millenaria presente in abbondanza anche in Alta Val di Non e Sole.

Nome scientifico “Taraxacum officinale” (per evitare equivoci non storpiatene l’accento, la pronuncia esatta è taràssaco, parola sdrucciola) questa erba spontanea, diffusissima nei prati, è conosciuta con i termini dialettali: dente di leone (Löwenzahn), dente di cane, soffione, pisciacane, radicio de prà, zicoria. Dai buongustai è apprezzata come una delle primizie selvatiche di primavera, dagli erboristi come un toccasana per l’organismo poichè depura, drena e disintossica. Inoltre favorisce la digestione, stimola la diuresi e riduce lo stress.

Il taràssaco condivide con altre erbe spontanee come gli sparagi selvatici, i radicchietti di campo e il topinambur (dai meravigliosi fiori gialli, soprannominato tartufo bastardo) un gusto decisamente amarognolo. Scottato in padella con aglio e peperoncino è una bontà. Presente nei ripieni delle torte salate può essere abbinato a verdure dal sapore più delicato, ad esempio spinaci ed ortiche, oppure ortaggi (patate e carote) per attenuarne il sapore pungente. Utilizzabile in ogni sua parte (radici, foglie, fiori), il taràssaco è un ingrediente estremamente versatile: dagli antipasti ai dolci. Provare per credere. Il sottoscritto, enogastronomo gaudente e impenitente, ama assaggiarlo spadellato con la pancetta croccante, sfumato con alcune gocce di aceto balsamico e condito con sale, pepe e olio extravergine. Un autentico peccato di gola.

Casagrande Giuseppe