La trasformazione

La trasformazione

Tratto dal libro: LA MINIERA DEI BOTTONI

La Storia, che da molte altre parti aveva girato pagina, lo stava facendo, ma solamente ora, nelle sonnacchiose vallate del Trentino. Il Progresso superò con fatica il passo della Rocchetta e incurante dell’atteggiamento sospettoso tipico dei Nonesi, avanzò determinato, seminando curiosità, interesse e infine anche entusiasmo. E pure il popolo delle Valli del Noce finì per esserne travolto. Vennero smontate le ruote in legno con profilo in ferro del carro celtico e sostituite con morbide e silenziose ruote in gomma. Poca strada e al carro venne staccato il timone, e le mucche che per secoli l’avevano tirato, furono messe a riposo. In cambio si chiedeva loro più latte e vitelli grossi. Il loro posto venne sostituito da un volante e da un motore a scoppio. E il carro divenne trattore; dapprima mezzo traballante sostenuto da tre ruote, per diventare in breve tempo rombante e potente con ruote alte e larghe che resero necessario l’allargamento delle strade di campagna. La vecchia carriola con botte e pompa manuale che serviva per irrorare le piante venne relegata in un angolo e al suo posto apparve la rumorosa motopompa montata sulla parte terminale del trattore. E l’antico silenzio delle campagne venne lacerato dai rumori del progresso che avanzava con prepotenza.

Le strade dei paesi, ripulite dallo sterco di animali, vennero ricoperte con uno strato di fumante catrame, sotto gli occhi incuriositi dei bambini che seguivano i lavori metro dopo metro. Le carrucole che servivano per sollevare e riporre nelle soffitte e nei fienili covoni di fieno, legna e spesso bambini che si auto sollevavano, furono buttate nel ferro vecchio. E con esse sparì l’allegro rituale di quelle operazioni che coinvolgevano grandi e piccoli nel tirare la corda. Se alle operazioni era presente un bambino piccolo, gli si offriva l’emozione di un viaggio in perpendicolare mettendolo in mezzo al fieno del covone con la testolina fuori che ricordava il fagotto della cicogna. I moderni Cranic azionati a corrente avrebbero risparmiato ai contadini anche quelle, più o meno piacevoli fatiche. Tutto veniva riveduto, modificato, trasformato. Al posto dei filari di fagioli, apparvero lunghe fila di piantine di meli Canada a venire.

Scomparvero i lunghi campi di patate e di barbabietole, le strisce biondeggianti di orzo e frumento, di granoturco dalle gialle allegre pannocchie e via, anche gli ultimi gelsi che avevano resistito come giganti buoni che custodivano la campagna, ricordo nostalgico di un’economia naufragata e ormai lontana. La monumentale machina da bater non avrebbe più fatto la sua apparizione estiva nella piazza centrale dei paesi, in un tripudio di polvere, grida e rumore infernale per la gioia dei bambini. Solo sui pendii assolati e lontani dal paese resistettero ancora per qualche decennio gli ultimi filari di vite, ricordi di allegre vendemmie, di profumo di mosto, di ubriacature giovanili. Il progresso esigeva sacrifici, reclamava spazi sempre più grandi.

Dalle polverose soffitte vennero eliminati mobili antichi, arnesi millenari, ruote da filare, aratri medievali. “Via, via tutto!” Si doveva ristrutturare la casa, elevarla, rifare il tetto… Le seghe per tagliare i tronchi furono appese al chiodo e sostituite dalle prime seghe circolari azionate a motore, spesso acquistate in comproprietà.

Molte preziose stufe a olle, monumenti centenari che troneggiavano nelle stanze più importanti, abbattute senza scrupoli, vennero utilizzate come materiale da riempimento per muri, terrapieni, strade di campagna, così come tante altre importanti testimonianze del passato. Anche i romantici e indimenticabili cessi pensili, vennero smantellati e sostituiti da moderni gabinetti con tazza bianca e sciacquone con catenella. Qualche benestante li arricchiva con vasca da bagno che rimaneva per qualche anno inutilizzata perché non si sapeva come riscaldare così tanta acqua. E così all’interno si installava la vecchia tinozza, sostituita poi da pratici e leggeri mastelli in plastica. “Che comodità, che lusso!” esclamavano i parenti di Sporminore che venivano a trovarci. Da loro, il progresso giunse con un leggero ritardo, ma ben presto ci superarono soprattutto nella potenza dei nuovi trattori.  Gli “status symbol” nascevano e tramontavano nell’arco di pochi mesi: il fornello a gas, la stufa bianca in cucina con piastra radiante, il divano nell’ingresso, la “500” di seconda mano. Ma lo “status symbol” per eccellenza fu il primo apparecchio televisivo che seguiva a distanza di qualche anno quello installato al bar e quello del maestro. E fummo noi ad averlo, grazie alla generosità di mio cugino. Fu questione di qualche anno, poi in quasi tutte le famiglie apparve la scatola magica. La TV finì con il diventare un po’ mamma, un po’ nonna, maestra, zia. Sostituì in molti casi gli amici e più avanti anche i fratellini. La fantasia si ammalò gravemente, la socialità subì un brusco arresto, l’allegria delle compagnie goliardiche di paese si dileguò e con esse scomparvero una alla volta molte belle tradizioni, come il trato marzo, i canti dei coscritti che giravano con i loro  cappelli variopinti, le rogazioni  nelle campagne di primo mattino, molte processioni religiose, la benedizione degli animali in piazza, gli allegri campanò, le sagre, la fienagione in montagna, gli altarini alla Madonna nel mese di maggio, i filò nelle sere d’inverno, la recita del rosario, le gare a piedi scalzi sui prati appena sfalciati…

Anche la grande pergola di vite che congiungeva la casa al bait, che abbracciava generosa una facciata dell’una e dell’altro, subì una grave mutilazione e di essa rimasero soltanto alcuni tralci che resistettero per qualche anno ancora, ormai rinsecchiti e infruttiferi. Con la vite sparirono dalla soffitta anche i bastoni dove venivano messi ad essiccare i grappoli di uva fraga e con essi scomparve quel provvidenziale conforto notturno al quale attingevamo quando volontariamente o involontariamente qualcuno di noi doveva saltare la cena. Assieme a tanti altri attrezzi, finì relegata in un angolo anche la falce dall’argentea lama, spesso in spalla ai nostri padri e zii, quando andavano a falciare di prima mattina; quella falce che fu per secoli inseparabile strumento di lavoro di sorella Morte, con il quale amava farsi ritrarre… Sorridente, anemica, fredda, misteriosa, spesso elegantemente in nero. Nessuno più l’avrebbe additata ai bambini per ricordargli che…No, meglio tener lontani i pensieri tristi che avrebbero potuto influire negativamente sulla loro psiche. Meglio non affrontare un argomento triste come la morte! I morbidi, teneri pulcini non avrebbero più trovato ad attenderli all’uscita dall’uovo le ali protettive di mamma chioccia, ma il “calore freddo” di una lampadina. Sparite anche le passeggiate nell’erba a caccia di piccoli insetti, le corse mozzafiato incontro a mamma chioccia, quando un gatto si avvicinava alla nidiata. Le emozioni avrebbero turbato la quiete dei piccoli animali, e l’eccessivo movimento all’aperto ne avrebbe rallentato la crescita. Sparirono così i polli ruspanti e le gallinelle che si accucciavano davanti a noi quando allungando il braccio e la mano in avanti dicevamo invitanti: “Basota, basota!”. Le prendevamo in braccio e dopo aver dato loro alcune carezze accompagnate spesso da un bacio, le sollevavamo in aria per farle volare. Venne il tempo dei mangimi, delle mungitrici, delle falciatrici, il tempo dei motori e di tutto ciò che avrebbe risparmiato tempo e sudore. Addio fatiche! Addio vita grama scandita dal suono delle campane! Addio mondo antico solcato dall’aratro preistorico! Addio!

Benvenuto benessere! Benvenuto progresso!

Ma quanto ci sei costato!

E con l’addio al mondo antico, anche l’autrice saluta i lettori del “il Melo”, ringraziando tutti coloro che l’hanno seguita nelle sue molteplici, singolari avventure, talvolta buffe e divertenti, altre commoventi o drammatiche. Ricordo che il libro si trova presso la cartoleria Visintainer di Cles. (…, forse arrivederci).

Antonietta Dalpiaz Breda