I mesi della malga

I mesi della malga

La parola ha una sua storia antica, che risale, a tempi preromani; infatti il termine “malga” appartiene ai dialetti alpini anteriori alla colonizzazione latina, all’incirca a qualche secolo prima di Cristo.

Malica”, cioè malga, significa sia il bestiame da pascolo, in particolare i bovini di cui i Reti erano esperti allevatori, sia la stalla di montagna costruita appositamente per ricoverare le mucche nella buona stagione.

Parente del termine in questione è: “malghét”, la malga alta per i vitelli ed il bestiame non da latte; o la malga usata per il secondo periodo di monticazione, quando i pascoli a quota inferiore sono esauriti ed abbisognano di un tempo di pausa per riprendersi.

L’allevamento, spina dorsale dell’economia alpina, ha una grande necessità di foraggio. Esso proviene in buona parte dai prati coltivati e falciabili che si trovano nelle vicinanze dei centri abitati; fino al 1800 viene raccolto di solito in due tempi: nel corso dei primi mesi estivi e dopo la metà di agosto.

Il Maffei scriveva a proposito: “I prati non sono proporzionati alla campagna, motivo della mancanza di acqua per innaffiarli, e manca a questi popoli la cognizione di fare de’ Prati artificiali, che in tanti altri Paesi riesce assai utile. Ne’ migliori siti si segano tre volte all’anno, negli altri due, e nel monte una volta”.

Il terreno vicino ai nostri villaggi veniva seminato a cereali, più recentemente a patate e grano turco; ciò era vitale per la sopravvivenza della popolazione, cresciuta troppo in fretta nel XIX secolo. D’altra parte queste colture per forza sottraevano spazio al foraggio, altrettanto necessario alla vita della gente per via del bestiame domestico che forniva latte, formaggio, burro e – non però di frequente – anche la carne.

Un rimedio alla scarsezza di prati fu trovato con l’invenzione del maso, la radura aperta nel bosco e tenuta a fieno, con la casa colonica nel centro. Ma questo non bastava certo a mantenere il bestiame domestico che era indispensabile alla vita dei montanari. Perciò, fin dai tempi antichissimi, si cercò di risparmiare sul foraggio avviando da giugno a settembre i bovini in malga.

La quantità di fieno che una bestia consuma in sei-sette mesi può arrivare a 50 metri cubi, una misura enorme; mandando le mucche in malga, in tre mesi circa, si risparmiano intorno a 20 metri cubi di foraggio per animale. Per gli altri due mesi che rimangono, in primavera e all’inizio dell’autunno, si suppliva con l’erba fresca, col fogliame, con il pascolo nelle campagne dove inaridivano le stoppie.

Pasti magri per le bestie, ma sufficienti a mantenere la “quarta(il fienile) quasi intatta per i tempi lunghi dell’inverno.

Trovo espressamente citato il termine “malga” sul finire del Medioevo, nei documenti regolanari nònesi e solandri. La Carta di Coredo, Sfruz e Smarano, risalente al 1437, nomina la “pontarola della Malga de supra”; la Regola di Cellentino e Strombiano in Val di Pejo, che è della primavera 1456, cita il “masarius de malga” e nomina il “malgario”.

Sono parole che ritornano poi in decine di Carte di Regola delle due valli del Noce, che erano per eccellenza territori di allevamento e dedicavano buona parte della loro legislazione interna alla manutenzione della malga, ai doveri dei pastori, al pascolo, alla salute degli animali domestici, alla divisione del lavoro durante la stagione estiva nelle zone in quota.

Resta sempre interessante vedere come si svolge la vita in malga, dove bestiame e personale vivono per mesi in simbiosi.

Gli operatori di cui si riconosce la faticosa responsabilità godono da sempre grande considerazione.

Per parlare di quanto si fa in malga, prendo una descrizione di circa 100 anni or sono, che grosso modo ricalca usanze molto più antiche e non è tanto lontana dalla realtà odierna.

Pur riguardando in particolare la Val di Rabbi – di cui si notano gli arcaici termini dialettali – il testo dice una situazione molto comune. “A custodia delle bestie vi sono due mandriani, vachiari: chi lavora il latte è il casaro, assistito e aiutato dal “malghelin”, che deve pensare a rifornire la legna e alla ripulitura di tutti gli attrezzi e vasellame, che a onor del vero bisogna dire vien fatta con molta cura. Il lavoro di questi quattro uomini fino alla metà di agosto ferve assai intenso: hanno appena 2 o al massimo 3 ore la notte libere per dormire. Si alzano alla mezzanotte per la mungitura che si prolunga anche fino a quattro ore; dalle 25 alle 30 vacche ognuno è quanto dire circa un paio di quintali di latte al giorno. Terminato questo lavoro fanno la colazione e poi i pastori conducono le vacche al pascolo; di mattina nei luoghi più lontani.

Casaro e malghelin dan mano alla fabbricazione dei latticini. A mezzogiorno le vacche ritornano alla stalla: si fa il desinare e poi sì ripete il lavoro fatto nella notte senza tregua. Dopo la mungitura le vacche ritornano al pascolo, ma vicine alla malga e i pastori fanno la pulizia della stalla, lavandola coll’acqua che vi si fa scorrere attraverso. Dopo la metà di agosto si disfà malghera vale a dire le vacche restano al pascolo per tutto il giorno e allora si diminuisce di molto anche il lavoro dei malgari”.                                  

 

Don Fortunato Turrini