Novembre

Novembre

Riti, tradizioni, usi e costumi

Novembre annunciava l’arrivo del crudo inverno con giornate sempre più corte e con il freddo sempre più pungente, spesso, regalava giornate grigie e uggiose, piene di pioggia se non, addirittura, con i primi fiocchi di neve.

Un vecchio adagio recitava: “Da santa Caterina (festeggiata il giorno 25) la neo la smolina”.

La natura cambiava colore. Dal verde dell’estate si passava, gradualmente al rosso, al marrone e al giallo. Le piante più colorate erano i faggi e i larici. I primi diventavano una tavolozza per pittori, i secondi sembravano appena dorati. Il sorbo degli uccellatori faceva bella mostra di sé ostentando le sue bacche color porpora. Qualche albero, invece, tendeva le braccia scheletriche verso il cielo quasi in cerca di un improbabile aiuto. La natura, piano piano, iniziava il suo lungo sonno invernale.

Anche l’attività degli uomini in questo periodo subiva un rallentamento. I grossi lavori nei campi erano terminati ed ora si poteva lavorare con più calma. Si approfittava di questo tempo per aggiustare gli attrezzi agricoli rotti durante l’estate e per metter un po’ d’ordine nelle soffitte e nelle cantine. Si sfruttava questo periodo anche per ungere gli assali (sil) dei carri o dei carretti usando un apposito grasso (smir) che limitava l’attrito durante il viaggio.

C’era anche un altro lavoro da fare ed era quello di procurarsi il necessario per riscaldarsi. In questo mese gli Usi Civici assegnavano ai censiti i lotti della legna (sort) da ardere. Fra gli uomini, i discorsi più ricorrenti vertevano proprio su quest’argomento: dove si trovava il lotto, la sua grandezza e la sua comodità per il trasporto.

Allora, non essendoci ancora il gas metano, la legna, era molto ricercata. I focolari funzionavano tutto l’anno sia per cucinare i pranzi e le cene, sia per preparare i pasti per gli animali e questo durante l’intero arco dell’anno.

La legna, inoltre, serviva per riscaldare la cucina e spesso anche per alimentare la stufa ad olle posta, in genere, nella stanza da letto del capofamiglia. Le altre camere non erano riscaldate. Si dormiva al freddo e, d’inverno, al mattino, i vetri delle finestre apparivano coperti con delle trine di ghiaccio. In novembre i giovanotti e gli uomini più validi salivano, al mattino presto, armati di scure, corde e seghe verso la montagna. Per ripararsi dal freddo si vestivano come palombari. In testa si calavano un beretto di lana o un cappellaccio e si coprivano con una serie di maglie, sempre di lana, fatte in casa. Sopra indossavano una logora giacca (giaban). Ai polpaci si infilavano le ghette ed ungevano gli scarponi di cuoio, molto chiodati, con la sugna (sonza) per renderli maggiormente impermeabili.

Per non scivolare, se c’era ghiaccio sulla strada, sotto le scarpe si legavano i ramponi (sci-arpele).

Si riparavano le mani infilandosi delle muffete di lana (manezze) confezionate in casa e rinforzate, sui palmi con pezzi di stoffa.

I boscaioli, così conciati, dopo ore di strada, giungevano nella località loro assegnata e cominciavano a tagliare le piante.

I rami erano ammucchiati a parte. In un secondo tempo sarebbero stati raccolti in fascine molto comode per attizzare il fuoco. A mezzogiorno, sospendevano il lavoro. Con alcuni rami secchi accendevano un fuocherello e scaldavano il misero pasto portato da casa. Consisteva, per lo più, in alcune fette di polenta ed un pezzo di formaggio nostrano condito con qualche sorso di vino. Sull’imbrunire riprendevano la via del ritorno non senza aver tagliato una pianta di contrabbando da portare a casa e cercando, nel contempo, di eludere la sorveglianza del guardiaboschi in questo periodo più vigile che mai. Tornare a casa a mani vuote equivaleva a farsi passare come una persona indolente. Il trasporto a valle della legna avveniva con i carri a due ruote (brozi), oppure, se c’era la neve con delle grandi slitte (slita dale bancete). Alle volte calavano i tronchi anche attraverso appositi canaloni (tovi). La legna, giunta a casa, era accatastata accanto ai muri di casa per essere essicata e quindi, tagliata in piccoli tranci (borei). Tutto questo lavoro si faceva a forza di braccia. Solo verso la metà del secolo scorso fu introdotta la sega circolare. Questo strumento alleviò di molto le fatiche degli uomini. Detto lavoro si svolgeva all’aperto durante le belle giornate di sole. Quando il tempo era cattivo i contadini approfittavano per rimanere in cantina a travasare il vino oppure a preparare i crauti.

Nei mesi “morti” certe persone erano occupate a portare sassi e legna per la primavera successiva quando avrebbero caricato la “calcara”.

Essa serviva per preparare la calce impiegata nel settore edilizio al posto del cemento allora sconosciuto. Il fuoco doveva ardere come minimo per almeno dieci giorni alla temperatura di 900 gradi. Con tale calore le pietre si trasformavano in ossido di calcio chiamato comunemente calce viva.

Le persone anziane non si dedicavano a lavori così gravosi, ma rimanevano in casa svolgendo mansioni più leggere.Una di queste era preparare il materiale per la lettiera delle mucche tagliando in piccoli pezzi l’erica raccolta nei boschi oppure tranciando gli steli del granoturco (far zo al farlet). Preparavano anche i vimini di salice necessari, la primavera successiva, per legare i tralci delle viti (curarar le strope).

Novembre era detto anche “il mese dei morti”.

Già nel pomeriggio del primo giorno, dopo vespro dei Santi, iniziavano le funzioni per la commemorazione dei defunti.  In cima alla navata della chiesa era portato un catafalco coperto con un drappo nero e davanti ad esso si cantava il “Libera me domine” e il “Miserere mei Deus”. Tutti i fedeli si recavano, quindi, in processione verso al cimitero. Si mettevano accanto alle tombe dei propri cari estinti aspettando che il sacerdote passasse per aspergerle, ad una ad una, con l’acqua santa. La campana grande, intanto, spandeva continuamente i suoi lugubri rintocchi.

Dopo cena si riunivano tutti in cucina per recitare le “zento rechie” in suffragio dei propri defunti.

Piero Turri

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