Era marzo: mi ricordo che…

Era marzo: mi ricordo che…

Nelle prime tre sere del mese di marzo, in diversi paesi della nostra Valle, i giovanotti si recavano su un’altura prospiciente all’abitato per “clamar för al marz”. Questa tradizione si ricollegava alla festa in onore alla dea Giunone, celebrata nell’antica Roma, alle calende di marzo, primo mese dell’anno romano, per risvegliare la primavera, la fecondità e gli amori.

Da noi quest’usanza, per le sue caratteristiche sarcastiche e irriverenti, nel XVII secolo, fu proibita dai vescovi di Trento e, nell’anno 1846, fu vietata anche dalla rappresentanza asburgica, ma venne in seguito ripresa. Durante queste serate i ragazzi, su un’altura, attorno ad un grande falò, portandosi le mani alla bocca a guisa di megafono, urlavano verso il paese la seguente cantilena:

(Coro):

Trato marzobonora sia

al ciaval la so ombria. – da ci ela.

Ci no elaci no ela

per maridar ca puta bela

che l’è an bon contrat da far

se no vos torlalagiala star.            

(Singolo):

Ala (nome della ragazza) ge daren al (nome del ragazzo).

(Coro):

Che l’è an boncontrat da far

Se no vos torlalagiela star.

A tutti gli scapoli e alle nubili del paese era assegnato un compagno o compagna ed erano sollecitati a “maridarse” al più presto. Gli accoppiamenti talvolta erano reali, ma in qualche caso, erano inventati di sana pianta; ad esempio, a una ragazza vanitosa, spesso, si abbinava un vecchio decrepito o viceversa.

La terza sera, invece, era dedicata ai vedovi e alle vedove.

Inutile dire che questo “rito” suscitava la curiosità della gente, specie fra i non sposati, che attendevano con ansia, sull’uscio di casa o sulla finestra, di conoscere il proprio abbinamento.

Marzo portava anche la Quaresima. Iniziava il giorno delle “Ceneri”, con l’imposizione delle stesse sul capo dei fedeli e terminava con la Domenica delle Palme. Durante questo periodo, il venerdì, si osservava il precetto del “digiuno e astinenza”. Nello stesso giorno, di sera, in chiesa, si teneva la “Via Crucis” con il canto dello “Stabat  Mater”.

La domenica di Passione si ricoprivano le ancone degli altari e i Crocefissi con un grande telo color viola.

Il giorno 19 marzo si festeggiava la ricorrenza di San Giuseppe. Allora non era, come ora, giorno feriale. Nel pomeriggio non si teneva la “dottrina” per i ragazzi e neppure si cantavano i Vespri come nelle altre solennità religiose. Le famiglie approfittavano del pomeriggio libero per fare la prima passeggiata primaverile “fuori porta”.

Marzo si scrollava di dosso la rigidità dell’inverno e i si presentava, almeno nei primi giorni, con i prati imbiancati dalla brina. Era il primo timido segno di risveglio. Il giorno ventuno, data d’inizio della primavera, arrivava anche “San Benedetto” con “la rondine sotto il tetto”.

Molti desideravano essere fra i primi a vedere questo uccello foriero della bella stagione. Era un buon auspicio. Il 21 marzo, inizio di primavera, era anche la data convenzionale in cui i bambini cominciavano a girare scalzi. Molti insegnanti, però, pretendevano che, almeno a scuola, i ragazzi calzassero le scarpe. I maschietti cominciavano a correre con il “cerchio” e a giocare a “nascondino”.

La pioggerellina di marzo, a poco a poco, faceva sparire nei prati le ultime chiazze bianche di neve per sostituirle con le macchie verdi dei primi ciuffi d’erba. In mezzo a questi, in seguito, avrebbero fatto capolino i primi fiori. Le bambine andavano lungo i canali irrigui o nei prati a cercare, sotto le foglie secche, le primule, le viole e le pervinche. Le viole mammole erano la passione delle femminucce. Raccoglievano un fiore dopo l’altro e quando il mazzolino era abbastanza consistente, lo legavano con un filo d’erba appena spuntata. Al termine, raggianti, lo consegnavano alla mamma o alla maestra.

Più tardi, sui terreni aridi, sarebbe sbocciata anche l’anemone pulsatilla che i ragazzi avrebbero raccolto, più tardi, per colorare le uova di Pasqua.

Dopo la sosta invernale, sempre troppo lunga, finalmente ci si poteva muovere in libertà. Le mamme, con un lungo grembiule di tela e un coltello da cucina in mano, si recavano nei prati a cercare le tenere piantine dei “denti di leone” (denti de ciagn) da preparare per la cena. Questi erano consumati crudi, alle volte anche, accompagnati da pezzetti di pancetta rosolata.

Solitamente, durante questo mese le donne “curavano i pradi” pulendoli con il rastrello dalle foglie secche e dai corpi estranei. Gli uomini, invece, spargevano il letame condotto nei campi con la “bena” il mese prima. Poi, per sminuzzarlo ulteriormente, ci passavano sopra, con un erpice, (sciala da erpegiar) al quale venivano attaccati dei rami spinosi.

Altro lavoro tipico di quel periodo era l’aratura dei campi per la semina dell’orzo, del mais, delle patate nonché la potatura dei pochi meli e peri allora coltivati. Successivamente, si provvedeva alla pulizia del loro tronco (con il raspin).

Nel tempo libero vangavano l’orto e seminavano i fagioli, la cicoria, le carote gialle, il sedano, il prezzemolo, la camomilla e i cavoli. Non si coltivavano, perché, quasi sconosciuti, i pomodori, i finocchi, i peperoni e le melanzane.

I più abbienti, a marzo, assumevano il “boiar”, cioè il ragazzo, che aiutava il padrone nella stalla e nei lavori agricoli. Normalmente il corrispettivo per questo servizio era il vitto e qualche regalia a fine stagione. Durante il mese, di marzo di solito, i giovanotti dei nostri paesi erano chiamati alla visita di leva. Questi coscritti, per l’occasione, facevano tre giorni di festa. Era una nota di colore e allegria che rompeva e vivacizzava la grigia e monotona vita quotidiana dei nostri paesi.

Piero Turri