ERA APRILE: mi ricordo che…

ERA APRILE: mi ricordo che…

Il tiepido sole d’APRILE riscaldava, gradualmente, le case e il terreno. Si vedevano già delle finestre spalancate e i panni, appena lavati, stesi all’aria aperta ad asciugare. L’erba cominciava a verdeggiare. Nei prati spuntavano i primi fiori gialli dei “denti di cane”.

La loro comparsa trasformava i prati in tanti cieli stellati. Sembrava che il firmamento avesse rovesciato tutte le sue stelle su quel tappeto verde. I contadini, in questo periodo, sistemavano i loro attrezzi, seminavano le patate e i fagioli. Spesso li piantavano sotto le viti per risparmiare lo spazio per gli altri prodotti. I campi, allora, erano numerosi perché costituivano la riserva alimentare delle famiglie. Per questo motivo, essi venivano seminati soprattutto a mais, frumento e patate.

Le vaneze” erano intercalate da filari di viti molto necessarie alla produzione del vino per uso domestico. In mezzo a queste, spesso, piantavano dei peschi, per avere, a tempo opportuno, la frutta per la famiglia. Negli orti e nei “bròli”, invece, mettevano dei pruni o dei ciliegi. Quando questi fiorivano, disegnavano fra le case delle belle e appariscenti macchie colorate.

Durante aprile seminavano gli orti e trapiantavano i cavoli. Sarebbero serviti, in autunno, per preparare i crauti, immancabile alimento invernale dei nostri vecchi. I terreni più fertili erano coltivati a campo mentre quelli meno produttivi erano tenuti a prato. Essi si presentavano come una fiorita e vasta superficie verde interrotta, di tanto in tanto, da qualche rara pianta di melo o di pero coltivata per uso domestico. Per irrigarli si usava l’acqua a scorrimento adotta in appositi canali (lezi).

In primavera i contadini potavano le piante e poi pulivano i loro tronchi con il “raspin”. In seguito le avrebbero irrorate con un prodotto chiamato “Nicotin”, usando una macchina a spalla.

I contadini in questo periodo, se non l’avevano già fatto in precedenza, legavano i tralci delle viti ai fili di sostegno (ligiar le vide). In seguito le avrebbero trattate con il solfato di rame (verderam).

Solitamente aprile portava anche la solennità pasquale e per questa circostanza le donne iniziavano la pulizia generale di tutta la casa. Durante le ore più calde spalancavano le finestre per arieggiare i locali e far entrare il gradevole e gradito tepore primaverile. Si lavavano le lenzuola, si sbattevano i materassi e si sprimacciavano i cuscini. Inginocchiate su uno straccio, le donne pulivano il pavimento della “stua”, grattando le assi con l’acqua, sapone, il “brus-cin” e tanto olio di gomito. In quel periodo le fontane diventavano un luogo molto frequentato. Era un posto di grande aggregazione, dove le donne, durante i lavori, si scambiavano le novità e i pettegolezzi del paese. Passando vicino, oltre allo sciacquio dell’acqua, si sentiva anche un allegro chiacchiericcio femminile. Pure gli uomini approfittavano del tempo libero per fare ordine intorno alla casa e per spazzare le aie.

Dopo una lunga Quaresima, con i venerdì di digiuno e astinenza e le “Via Crucis”, aprile portava anche la Settimana Santa, preludio alla solennità pasquale.

Essa iniziava con la “domenica della Palme”. In questo giorno la messa “granda” era preceduta dalla benedizione dei rami d’ulivo e dalla solenne processione per le vie del paese. Al Vangelo veniva letto il “Passio” in latino, lingua che, escluso il prete e il maestro, pochi altri conoscevano. Nel pomeriggio iniziavano le “Quaranta ore” con la solenne benedizione finale. L’adorazione al SS. Sacramento proseguiva anche il lunedì, il martedì e il mercoledì.

Il giovedì santo la messa si celebrava molto presto. Al termine della funzione si riponevano le particole nel “Sepolcro”. 

Terminata la funzione del giovedì santo, le campane restavano mute fino al “Gloria” della Resurrezione. Durante questo periodo erano sostituite dal gracidio della “ranela” suonata dai chierichetti per le vie del paese.

Il giovedì santo i bambini di terza classe ricevevano la Prima Comunione. Il venerdì santo non erano previste particolari funzioni, salvo una processione notturna con una grande croce nera avvolta in un sudario bianco.

La liturgia del “Sabato santo” prevedeva, oltre la Messa con il solenne canto del Gloria e con il suono di tutte le campane, l’accensione del fuoco, del cero pasquale e la benedizione dell’acqua santa.

Ed ecco finalmente la grande festa della Resurrezione del Signore annunciata, all’alba, con il suono a stormo di tutte le campane. Per assolvere il precetto pasquale, i fedeli si recavano alla messa “prima” accostandosi all’Eucarestia. In quell’occasione il sagrestano, a fianco del parroco, consegnava ai comunicati un “santino” che, come vedremmo dopo, sarebbe servito la domenica successiva.

Nel pomeriggio si giocava con le uova sode colorate con i fondi del caffè d’orzo (pei dal cafè), con le cipolle o con i fiori dell’anemone pulsatilla (pionola). I ragazzi, ma, alle volte, anche gli adulti battevano insieme una coppia di uova sode; il padrone dell’uovo rimasto intatto vinceva quello rotto. Le uova avanzate, per tradizione, si mangiavano, a cena, con i denti di leone.

La domenica successiva, detta “In albis” (otava de pasca), il parroco passava di casa in casa per benedire le abitazioni. Nella stanza più bella, sul tavolo, si preparava un piattino con i “santini” ricevuti durante la Comunione pasquale. Dovevano essere pari al numero dei membri adulti della famiglia per dimostrare che tutto il nucleo aveva ottemperato al precetto di comunicarsi almeno una volta l’anno al tempo di Pasqua. Il 25 aprile, festa di san Marco, allo sbocciare dei primi fiori di melo, si celebravano le “rogazioni maggiori”. Era una festa di origine pagana (ambarvalia), copiata dalla Chiesa e celebrata per propiziare da Dio un abbondante raccolto.

In questa occasione anche i nostri contadini pregavano il Signore perché preservasse il paese e la campagna dalle disgrazie e dalle calamità atmosferiche. Dopo la messa mattutina, dalla chiesa partiva una processione che si snodava per le strade di campagna cantando le “Litanie dei santi”.  Le invocazioni più sentite dai nostri avi saranno state, certamente: “A peste, fame et bello libera nos Domine” e “A fulgure et tempestate libera nos, Domine”.

Piero Turri