Maggio e giugno

Maggio e giugno

Tra primavera ed estate: mi ricordo che….

Maggio è mese dei fiori, delle rose e dedicato a Maria, mentre il giugno era tempo di fienagione per garantire il foraggio in stalla anche per l’inverno.

Nei boschi, in maggio, germogliano il sambuco e il maggiociondolo; spuntano le peonie selvatiche, volgarmente chiamate “röse dai ciavaleri”. Fra i cespugli fioriscono i mughetti detti “ciampanele”. Gli scolari di una volta portavano a scuola questi fiori e poi li infilavano nel calamaio e poco dopo, con loro grande sorpresa, le corolle, assorbendo l’inchiostro, da bianche diventavano nere. Negli orti fioriscono i tulipani e i lillà e i prati (ora frutteti), si riempivano di fiori variopinti. Che bello osservarli; sembravano dei tappeti variopinti!

A maggio il sole si alza presto e i contadini di una volta, all’alba, erano già nei campi a sarchiare e rincalzare il granoturco e le patate (“sarir e ledrar”). Altro lavoro ingrato era quello di debellare i dannosi maggiolini (zorle) scuotendo gli alberi e sbattendo i loro rami con dei bastoni per farli cadere.

Durante il mese di maggio le piante raggiungono il loro massimo turgore e i ragazzetti ne approfittavano per farsi dei fischietti (“sigoloti”) usando i rami di frassino; con i fusti di sambuco, invece, si costruivano delle pistole ad acqua (“sitoni”).

A maggio e fino ad autunno inoltrato prestava servizio il pastore delle capre. Egli passava per il paese suonando il corno. Le donne allora scendevano nella stalla e conducevano l’animale, o gli animali, sulla strada. Alla fine del giro il gregge si era notevolmente ingrossato e il pastore lo portava a pascolare sulle pendici della montagna. Sarebbe ritornato nel tardo pomeriggio.

In questo periodo iniziava “l’asilo” che durava fino al termine della stagione agraria. Non c’erano orari di entrata o d’uscita. I genitori consegnavano i loro figli quando andavano in campagna e li riprendevano quando tornavano.

Sul far della sera, nei prati, si accendevano delle piccole fiammelle. Erano le lucciole. Qualche ragazzino si divertiva a rincorrerle. Una volta catturate, le portava a casa e le imprigionava sotto un bicchiere capovolto.

Maggio è il mese delle rose, ma anche il mese mariano.

In ogni casa una volta si faceva “l’autarin” mettendo su di un tavolino un’immagine della Madonna e i ragazzierano invitati dal parroco, dai genitori e dai maestri a fare dei “fioretti” compiendo delle opere buone e dei piccoli sacrifici. Una gita tradizionale di famiglia, per chi se lo poteva permettere, era il pellegrinaggio alla Madonna di Pinè. Spesso la comitiva era composta di diverse famiglie. Prendevano il tram fino a Trento e da qui, in corriera, giungevano a Pergine. Quindi, proseguivano a piedi, alle volte recitando il Rosario, fino a destinazione. Dopo una notte passata in qualche alloggio di fortuna, facevano ritorno al paese rafforzati con tante cose nuove da raccontare ai vicini di casa.

Durante questo mese, in chiesa, ogni sera, recitavano il Rosario. Per i giovani era una buona occasione per uscire da casa. Questa era anche l’ora dei corteggiamenti. Durante una più o meno occasionale passeggiata per le strade di campagna, i giovanotti, complice la tiepida notte, cercavano qualche discreto approccio con l’altro sesso. Questi furtivi quattro passi, se scoperti, suscitavano i mugugni e le ire dei genitori seguiti, spesso, dal rimprovero del parroco che mal tollerava questo tipo di divertimento. Per questo motivo le madri, prima che i giovani uscissero da casa per andare al santo Rosario, erano solite rivolgere loro l’immancabile frase: “Te raccomandi, dopo funzion, vei subit a ciasa”.

Una tradizione erano le rogazioni che si svolgevano, il lunedì, il martedì e il mercoledì lungo le stradine di campagna nella settimana prima dell’Ascensione.

In giugno iniziava il periodo della fienagione. Quello era un lavoro molto pesante ma anche essenziale per l’approvvigionamento della stalla. Ogni contadino cercava di avere fieno a sufficienza per l’intero arco dell’anno. La mancanza di foraggio avrebbe costretto il padrone di casa a fare degli acquisti non previsti, oppure alienare qualche animale depotenziando in questo modo, la stalla. Per non correre questi rischi si cercava di raccogliere più foraggio possibile. Allora l’economia dei nostri paesi si basava essenzialmente sull’agricoltura e sull’allevamento. La stalla costituiva una delle maggiori fonti del reddito familiare. Le mucche, fornivano il latte, il formaggio e il burro e, alle volte, davano anche un bell’introito con la vendita del vitello. Questi bovini erano pure la forza motrice nel lavoro dei campi e nel trasporto dei raccolti e della legna. Per risparmiare foraggio, i contadini mandavano le mucche in alpeggio e vi restavano fino a metà settembre. Fra di loro c’era molta solidarietà. Se durante l’alpeggio una mucca si perdeva o moriva, la spesa per la sostituzione dell’animale scomparso era sostenuta congiuntamente da tutti gli utenti del pascolo.

Per evitare l’afa estiva e le fastidiose punture degli insetti, i contadini, falce in spalla e porta cote (cozar) infilato alla cintura dietro la schiena, iniziavano a lavorare molto presto e verso le otto arrivavano le donne con la colazione, le bevande dissetanti (di solito cafè de orz col vin) e un uovo sbattuto. Esse, poi, rimanevano nel prato per sparpagliare, con la forca, in modo uniforme, l’erba appena falciata (far för le antane). Terminato il lavoro, tornavano a casa per preparare il pranzo. Si mangiava alle ore undici e poi, dopo l’immancabile siesta pomeridiana, si tornava nel prato a rivoltare l’erba ormai appassita. Una volta essiccata, veniva raccolta in grandi mucchi (antane) e, quindi sistemata sul carro. A questi gravosi lavori di fienagione partecipavano, con ruoli diversi, tutti i membri della famiglia. Per questo motivo i ragazzi di quinta elementare, su richiesta dei genitori, potevano ottenere l’esonero scolastico per tutto il mese.

In giugno ricorreva anche la festività del Corpus Domini che coinvolgeva tutta la comunità. Nei giorni precedenti si pulivano le strade, dove sarebbe passata la processione. Si coprivano con delle frasche le concimaie allora tutte a cielo aperto. Il giorno della festa, di mattina presto, venivano stese alle finestre delle coperte colorate adornate con ceri e vasi di fiori. In due o tre posti, lungo il percorso della processione, erano allestite delle piccole edicole. Lì si sarebbe fermato il corteo. Dopo il canto del “Tantum ergo”, il sacerdote impartiva la benedizione con il SS. Sacramento.

Piero Turri