“Era agosto” mi ricordo che…

“Era agosto” mi ricordo che…

In agosto la resa dei prati e dei campi, solitamente, era abbastanza scarsa mancando il sistema d’irrigazione. Per questo motivo i contadini cercavano di usufruire di tutto il terreno coltivabile.

La campagna non doveva mai restare incolta. Bisognava sfruttarla fino in fondo. I contadini, appena raccolto e trebbiato il frumento e liberato i campi dalle stoppie, usavano lo spazio rimasto libero per seminare le rape. Esse servivano per l’alimentazione degli animali ma, in autunno, anche per la preparazione dei crauti. Certe volte, una parte del raccolto veniva conservata in cantina, al buio.

Durante l’inverno da queste piante sarebbero spuntati dei teneri germogli bianchi e gialli usati, in cucina, come verdura cotta.

Avevano un sapore amarognolo poco gradito ai bambini. In molti paesi della valle erano chiamati “brumoi”.

Una tradizione consolidata voleva che la semina delle rape avvenisse il giorno 10 agosto, festa di san Lorenzo, alle ore 12, girando la schiena al sole. Solamente con queste modalità il raccolto sarebbe stato ottimo e abbondante.

Si diceva pure che dal 20 luglio al 20 agosto non si potevano toccare le viti perché “el sol l’era en canicola”.

In agosto si provvedeva, anche allo sfalcio del secondo fieno (degör).

La quantità, rispetto al primo taglio, era decisamente minore e, quindi, minore era anche il tempo impiegato. Finito questo lavoro, con i bozzoli del baco da seta già consegnati all’essiccatoio e il primo e secondo fieno stivato in soffitta, i lavori più urgenti erano quasi terminati.

Pertanto si approfittava di questo periodo di relativa calma per dedicarsi alla fienagione in altura.

Avere una buona scorta di foraggio era molto importante.  Significava avere una garanzia, per l’inverno; significava non dover alienare qualche capo di bestiame o sostenere delle spese per l’acquisto di nuovo fieno.

Si cercava, pertanto, di racimolare erba in ogni luogo possibile.

Uno di questi posti era rappresentato dai prati in montagna. Questa era un’attività praticata ormai da secoli.

Probabilmente non sarà stato così ameno come descritto dal prete ma, tutto sommato, il lavoro in montagna non dispiaceva e non era sentito come un gran peso. Forse costituiva un’alternativa al solito tran tran alla vita quotidiana del paese.

Questo cambiamento di sede e di ritmo, a quei tempi, poteva apparire come un momento di riposo e di fuga dall’afa estiva. Allora, nessuno pensava ai soggiorni marini.

Certe famiglie si trasferivano al completo. In questo caso dicevano “noi nen ala monteson” per significare che l’intero nucleo si allontanava da casa e andava in montagna per un determinato periodo. Partivano di buon mattino, alle prime luci dell’alba, mettendo sul carro uno zaino pieno di viveri, una botticella con la “mosa” e un’altra contenente il vino (barisel dal vin). Durante la permanenza in montagna, (che durava generalmente una settimana) le famiglie si sistemavano alla meglio in rozze e improvvisate tende fatte con teli di juta.    

Dormivano su giacigli di fieno avvolti in vecchie e logore coperte. Il pranzo consisteva nell’immancabile polenta accompagnata da formaggio nostrano, lucaniche o “tonco”. A cena non poteva mancare l’insostituibile “mosa”. Il tutto, come abbiamo visto, portato da casa.

Alle nove e alle sedici s’interrompeva il lavoro per uno spuntino solitamente composto di pane, formaggio, lucanica, vino o acqua.

Nel primo pomeriggio era d’obbligo una lunga siesta. Dopo il tramonto si sedevano all’aperto, godendosi la frescura, alle volte assieme alle persone della tenda accanto. Spesso per concludere la giornata ci scappava anche qualche canto di montagna. Gli uomini di buon’ora falciavano l’erba e le donne la distribuivano in modo uniforme.       

Una volta essiccata, la raccoglievano con la forca e il rastrello e la sistemavano in ampi teli di juta.  Il sabato, caricavano tutto il fieno raccolto durante la settimana; lo sistemavano sul “broz coi palanci” e lo portavano a casa.

Coloro che rimanevano in paese approfittavano di questo periodo relativamente calmo per raccogliere nel bosco delle foglie secche e dell’erica.

Sarebbero state usate come lettiera per le mucche (far farlet). I giovanotti, qualche volta, si alzavano presto per andare in montagna a raccogliere lamponi o mirtilli. Le donne, invece, lungo le siepi, facevano incetta di corniole per preparare degli ottimi sciroppi. Nei campi, intanto, maturavano le prugne e le pesche. Spesso questi frutti erano l’oggetto di razzie notturne consumate dai giovanotti in cerca di un passatempo diverso. Girando per i boschi nella seconda metà del mese si poteva già notare la fioritura di qualche ciclamino.

Era un preludio al futuro autunno.

Piero Turri