Teroldego, un tesoro di color rubino

Teroldego, un tesoro di color rubino

Puntualmente il ciclo delle stagioni rinnova il rito autunnale della raccolta delle mele, dell’uva e di altri prodotti della campagna; nemmeno la tecnologia più avanzata, della quale quotidianamente ci nutriamo, è riuscita a scalfire l’ordine naturale dello scorrere del tempo agrario. E in Piana Rotaliana l’oro agreste ha il colore rubino del Teroldego, da secoli marcatore del paesaggio e dell’economia di questo triangolo alluvionale creato dal Noce alla fine dell’era glaciale. Vino e vitigno uniti dallo stesso nome e dall’attributo rotaliano a certificare il legame storico indiscusso che lega in via esclusiva da secoli territorio e prodotto enologico, che a partire dal secolo scorso ha portato benessere e ricchezza al territorio. Una storia che si intreccia anche con 2500 anni di cultura nella coltivazione della vite nell’ambiente alpino, impossibile da raccontare in poche righe, iniziata con le popolazioni retiche che qui erano stanziate, proseguita con l’arrivo di Roma che con l’Imperatore Probo nel III secolo ne favorì lo sviluppo. Anche la dominazione gota prima, e quella longobarda poi, rafforzano l’attenzione alla viticoltura: il re longobardo Rotari, nell’omonimo editto, dedica cinque capitoli alla tutela dei vigneti. Venendo velocemente ad epoche più vicine a noi, troviamo che il primo documento trentino in cui si legge “teroldeghe” è del 1383, ed è un contratto di locazione redatto a Trento, circa un secolo dopo il termine appare in una pergamena quale atto di vendita, e pochi anni dopo nell’ “Estimo delli beni stabili della vila de Mezo” il termine appare quale toponimo specifico di un vigneto di Mezzolombardo situato fra le località -tuttora così chiamate- dell’Entichiar e Pasquari. Durante il medioevo il commercio del vino verso nord venne ostacolato in tutti i modi dai sudtirolesi costringendo la comunità rotaliana a faticose e lunghe lotte per ottenere giustizia.

Nel 1558 il Rösch nel Tiroler Landreim lo appella (forse con tono svalutante) “Gothartwasser” richiamando l’omonimo castello sopra Mezzocorona, Comune che invece oggi gli ha dedicato una via.

Sono pertanto da accantonare le interpretazioni fantasiose, ancorché ispirate da comprensibili politiche di marketing, che leggono nel nome del vino rotaliano “Tiroler Gold”, ovvero “Oro del Tirolo”. Va poi ricordato quanto scrive il Mariani nel 1673 nel suo celebre scritto su Trento e il Concilio, dove afferma che “…li vini Teroldeghi cosiddetti dall’uva sono dei più grossi e neri, e se non rispondono di piccante, sono muti che fanno parlare…”. Con un acrobatico salto temporale veniamo al secolo scorso, alla figura del cav. Guido Gallo che è stato sicuramente il personaggio che, a partire dal 1937, ha realizzato il passaggio di qualità nella crescita e promozione del Teroldego a livello nazionale. Proprio sul nome del vino coltivato in Piana Rotaliana, in un suo scritto pubblicato, come poi molti altri, sul numero del 1943 dell’“Almanacco Agrario. Consiglio provinciale delle Corporazioni Trento”, proponeva il nome di “Teroldego” quale nome dialettale scelto da secoli dai contadini e derivante dal toponimo della località di Mezzolombardo e che avrebbe preso definitivamente il posto di “Teroldico”, traduzione in italiano del nome. Un nome antico, carico di storia e tradizione per un vino che da sempre può vantarsi dell’accezione di “Vino principe del Trentino”; sarà proprio questo il nome che verrà ufficializzato nel decreto del Presidente della Repubblica del 1971, dopo un lungo e impegnativo iter burocratico, che porta il Teroldego, affiancato dall’aggettivo “rotaliano” che lo individua come esclusivo dell’omonimo Campo, a potersi fregiare come primo vino trentino della “Denominazione di Origine Controllata”.

Ma qual è la realtà di oggi del Teroldego Rotaliano?

Ne parliamo con il tecnico Francesco Fellin, oggi in pensione, che per oltre 40 anni ha esercitato, con professionalità e passione, come consulente nella Piana Rotaliana, prima per Esat e poi per Fem.

Questa zona che è stata definita da Cesare Battisti “il più bel giardino vitato d’Europa”, lo è ancora?

Certo, il Teroldego rappresenta ancora, per questa realtà, il vitigno principe che è basilare per l’economia delle centinaia di aziende viticole locali e mantiene un forte e storico legame territoriale.

Quale può essere il segreto di una vita così lunga e gloriosa?

In primo luogo, certamente la qualità che queste uve riescono ad esprimere in questo ambiente dato dalla combinazione di un microclima particolare e di un terreno alluvionale formatosi nei secoli sul materiale depositato dal torrente Noce. Un vitigno generoso e che non soffre particolari problematiche. In seconda battuta la riconosciuta elevata qualità del vino sia da pasto che destinato all’invecchiamento.

La zona classica di produzione del Teroldego è sempre la stessa?

Si, i circa 400 ettari coltivati a Teroldego, che rappresentano il 4% della superficie viticola trentina, sono distribuiti nei comuni di Mezzolombardo, Mezzocorona e Grumo; in questo areale, incidono per oltre il 50% sul totale vitato.

Dove viene vinificata l’uva?

Per il 90% il prodotto viene equamente conferito alle cantine sociali di Mezzolombardo e Mezzocorona mentre il restante 10% viene vinificato dai vignaioli privati. Fra questi i più conosciuti e rinomati sono Foradori e De Vescovi.

Quali sono state le tappe più importanti degli ultimi decenni?

L’obiettivo costante è quello di migliorare sempre più la qualità delle uve che, in combinazione con l’affinamento delle tecniche enologiche, può portare ad un vino di eccellenza sempre più prestigioso. Per questo si è lavorato molto, assieme a Fem, per il miglioramento genetico del vitigno, per la zonazione, al fine di individuare gli areali migliori, e per ottimizzare gli interventi di campo che i produttori eseguono nel corso della stagione.

Qual è il senso dei progetti qualità quali il “Clesurae” della cantina sociale di Mezzolombardo?

Già da qualche anno la nicchia di mercato, formata dai veri amatori dei vini eccelsi, è in crescita. Ecco quindi che per arrivare a questo tipo di prodotto bisogna partire da zone scelte, dalle migliori uve ottenute con particolari ed impegnative tecniche di campo, riducendo sensibilmente le produzioni ad ettaro rispetto ai 170 q.li ammessi dalla doc, ed attuare specifiche attività di vinificazione ed affinamento in cantina.

Cosa prevedono i “disciplinari di produzione integrata”?

Ormai da diversi anni anche in viticoltura i produttori devono attenersi a delle norme cogenti relative alla tecnica agronomica di campo ed alle tecniche ammesse per la protezione delle piante. Lo scopo è quello di produrre nel rispetto delle risorse naturali e con il minor ricorso possibile agli input chimici. La certificazione prevede poi severi controlli da parte di un Ente terzo.

E la produzione biologica?

E’ un modo di produrre più impegnativo e più rischioso. Al momento, in Trentino, interessa meno del 15% della superficie totale.

Piergiorgio Ianes e Bruno Kaisermann