ERA DICEMBRE: mi ricordo che…

ERA DICEMBRE: mi ricordo che…

Dicembre, una volta, era sinonimo di neve, di tanta, tanta neve. Era una cosa assolutamente normale che in un sol giorno ne cadesse quasi un metro. E nessuno si lamentava. Anzi, per i bambini era una gran festa.  Cominciavano già ad agitarsi quando il cielo si presentava grigio e le nuvole nere, sempre più gonfie, si dirigevano verso nord.

Poi, ecco, l’arrivo tanto atteso dei primi fiocchi, sempre più grandi, che coprivano le ultime foglie d’autunno.

I bambini più piccoli, affacciati ai vetri della cucina quasi opachi perché appannati dal vapore, osservavano estasiati il volteggiare nell’aria dei soffici batuffoli.

Anche gli scolari, sfidando i richiami del maestro, guardavano, di sottecchi e in continuazione, fuori dalla finestra dell’aula, il cadenzare dei fiocchi. Già immaginavano le allegre battaglie a palle di neve e sarebbero tornati a casa, affamati, stanchi bagnati fradici, con i piedi gelati ma tanto felici.  Per riscaldarsi avrebbero infilato i piedi nel forno del focolare rischiando così le dolorose “bugianze” (geloni).

Le persone anziane avevano già annunciato l’arrivo della nevicata deducendolo dai brividi di freddo che nei giorni precedenti avevano attraversato la loro schiena. Dopo qualche ora gli uomini, intabarrati, muniti di pala, si aprivano un varco per uscire da casa. Solo più tardi, lo spartineve (slitòn) del Comune trainato dai buoi, avrebbe aperto la “róta”.

In quegli anni la polenta era una voce fissa nel menù quotidiano e costituiva la base fondamentale dell’alimentazione dei nostri avi. Veniva consumata a colazione con le “patate rostide” o a dadini affogati nel latte; a mezzogiorno era servita con il formaggio, con i crauti, con i fagioli, con i funghi e, la domenica, con un po’ di carne o con il “tonco de patate”.

Di sera la mangiavano riscaldata. Spesso si cucinava la “polenta congiada giò” preparata a fette, intercalate da formaggio fuso o burro. Ai bambini, spesso, era servita a merenda su fette cosparse di zucchero. Spesso alla farina di mais si aggiungeva quella di grano saraceno e si otteneva la cosiddetta ottima “polenta nera” o de formenton. Questa era una prelibata specialità riservata alle occasioni importanti. Si accompagnava molto bene con le salcicce.

Per quanto riguarda le minestre non c’era che l’imbarazzo della scelta. Le brave massaie preparavano la menestra de orz, la mosa, la panada,  el  brustolin,  i frigoloti. La pasta asciutta si consumava solamente nelle feste più importanti. Sulla tavola c’erano unicamente le verdure nostrane prodotte negli orti: insalata, cicoria, fagioli, rape, cavoli e verze.

Molte volte, per la cena, si preparava “la torta an la bazina” o “el tortel” a volte anche “de patate”… Non era abitudine consumare la frutta dopo i pasti; si mangiava occasionalmente solo quella di stagione prodotta nei propri campi. Unica eccezione erano le “persecie”, piccole fette di mela o pera infilate in uno spago e seccate in soffitta. Era una specie di gomma americana “ante litteram”. Infatti, durante i mesi freddi i ragazzi se ne riempivano le tasche. Le portavano pure a scuola e le mangiavano quando non erano osservati dai maestri. I dolci si consumavano solo in occasione delle feste. Si limitavano in genere alla torta di frigoloti, alla torta gradela, allo zelten in occasione del Natale e d’estate lo strudel.

Il caffè “bon” si preparava solo per gli ammalati o per offrire, in determinate occasioni, a persone importanti. Per l’uso quotidiano si usavano dei surrogati o quello ottenuto dall’orzo. Non c’erano le Moke. Per preparare la nera bevanda si scaldava un po’ d’acqua in un pentolino. Al momento della bollitura si aggiungeva il caffè o uno dei suoi sostituti. Questo sistema cambiò dopo la seconda guerra mondiale con l’introduzione della “napoletana”. Ai pasti, le donne e i bambini bevevano acqua del rubinetto e gli uomini un leggero vinello (acaròl). L’acqua minerale era sconosciuta. Solo dopo il secondo dopoguerra si tentò di imitare l’acqua gassata con l’Idrolitina del cavalier Gazzoni. Si poteva preparare un’acqua frizzante anche usando dei sali minerali contenuti in due bustine: una rossa e una blu.

La carne si consumava quasi esclusivamente la domenica. Di solito era quella prodotta dagli animali del proprio cortile o dall’allevamento dei conigli. Unica eccezione era, d’inverno, dopo l’uccisione del maiale. L’animale, del peso di 15-20 kilogrammi, era acquistato ancora in estate, spesso a Castelletto, durante la fiera di santa Margherita o in malga. In seguito, era allevato con gli avanzi della cucina (colobie), con le patate piccole e con il siero del caseificio. Al momento della macellazione poteva pesare anche 150-180 chilogrammi. L’uccisione del suino portava in famiglia allegria e movimento.

Già alla fatidica alba si mettevano sul fuoco dei pentoloni colmi d’acqua che, una volta bollente, sarebbe servita per togliere le setole al povero animale.

Nel giorno stabilito, verso le otto del mattino, “l’esperto sicario” del paese  si presentava in casa, armato di affilatissimi coltellacci, per procedere all’esecuzione capitale del povero animale.

Dal porcile il maiale, con alti grugniti, veniva condotto all’aperto e sgozzato. Le donne raccoglievano il sangue per fare i sanguinacci (brusti) e dell’animale non si buttava via nulla. La carne migliore serviva per lucaniche e salami (grassina) e per la coppa, quella meno pregata per le mortandele.

Il grasso era sciolto (struto o faitar) e conservato in appositi contenitori di terracotta (pitari). I ciccioli (zitole) erano consumati nella minestra o mangiati con le “patate rostide”.

Per i bambini, dicembre era il mese più bello ed era vissuto in attesa della venuta del Bambino Gesù (allora Babbo Natale non esisteva). Si cominciava già il giorno 6 aspettando San Nicolò e il 12 con l’arrivo di santa Lucia. I piccoli mettevano all’esterno della finestra un piatto, contenente farina e sale per l’asinello.

Erano sicuri che il mattino seguente lo avrebbero trovato colmo di noci, fichi secchi, arachidi, una stecca di mandorlato e magari qualche mandarino.

E anche se lo spazio era poco, a Natale si trovava sempre un posto per sistemare  il presepio e non solo l’abete, come si fa oggi.

Piero Turri

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