L’ultimo saluto

L’ultimo saluto

Pillole di storia locale

Nei nostri paesi la “pietas” verso le persone gravemente ammalate e verso i defunti era molto sentita anche ai tempi dei nostri progenitori. Essa coinvolgeva non solo i singoli individui ma l’intera la comunità locale.

Nei decenni scorsi la maggior parte delle persone moriva sul proprio letto. I ricoveri in ospedale erano molto rari ed erano limitati, principalmente, agli infausti interventi chirurgici o agli infortuni. Le malattie, normalmente, si curavano in casa. Allora non esisteva l’assistenza sanitaria gratuita. I parenti del ricoverato dovevano pagare di tasca propria sia le cure, sia la degenza. Molte famiglie per far fronte a queste spese furono costrette a vendere dei campi o dei prati riducendosi, in qualche caso, anche sul lastrico. Per i nullatenenti interveniva il Comune di residenza ovvero l’intera comunità locale.

Quando una persona si stava avvicinando all’ora estrema, i parenti avvertivano, (salvo decessi improvvisi) immediatamente il parroco perché, allora, morire senza la Comunione e l’Estrema Unzione significava essere condannati all’Inferno.

Contemporaneamente il sagrestano dava il triste annuncio alla comunità suonando la campana grande (sonar l’agonia). Il parroco si apprestava a portare il viatico all’infermo in forma solenne. Aprivano il corteo, due membri della Confraternita del SS. Sacramento che portavano la croce astile e la lanterna. Dietro un chierichetto strimpellava interrottamente un campanello. Un altro confratello accompagnava il prete e due chierichetti sotto un grande ombrello bianco damascato. Il mesto corteo era seguito dai parenti del morituro, dagli amici e dai fedeli. In casa entrava solamente il sacerdote che confessava il moribondo e gli somministrava la Comunione e L’Estrema Unzione. La gente si fermava a pregare sotto le finestre dell’ammalato. Avvenuto il decesso, il morto rimaneva in casa. Si liberava la camera dai mobili lasciando solamente il letto su cui l’estinto veniva adagiato, tutto vestito di nero, sotto una coperta bianca.

I defunti appartenenti della Confraternita del SS. Sacramento, invece, erano rivestiti con una cappa rossa. A fianco del letto erano posti quattro candelieri e davanti veniva collocato un secchiello con l’acquasanta. La salma era vegliata tutta la notte dagli amici o dai parenti più stretti.

La dipartita di un paesano era annunciata alla comunità con tre suoni della campana grande, se era un uomo, con due se era una donna. Se si trattava di un bambino (allora capitava spesso) suonavano la campana più piccola. La sera prima del funerale, in casa del defunto, si recitava il Rosario. Subito dopo la dipartita del caro estinto, i famigliari mandavano una persona a comunicare ai parenti e agli amici più stretti la triste notizia e a comunicare loro la data e l’ora del funerale.  A questi, prima della cerimonia, era consegnata una candela da portare in processione e un’immaginetta ricordo, in dialetto chiamata “memoria”.

Il giorno del funerale la salma era messa su di un catafalco, coperta da un drappo nero, e portata, in processione a spalla, dalla casa fino alla chiesa da quattro persone vicine alla famiglia. Il feretro era seguito dal prete, dal coro che cantava “Miserere mei Deus” e da tutti i paesani. Il dolore di quella famiglia era condiviso da tutta la comunità. In chiesa si diceva la cosiddetta messa “in terza” officiata da tre preti con funzione di celebrante, diacono e suddiacono. Dopo la funzione tutti i partecipanti si portavano al cimitero per dare l’ultimo saluto alla salma che lasciva per sempre il suo paese e la sua gente.

Al rientro dalle esequie, alle volte, si leggeva anche il testamento. I funerali solitamente si celebravano al mattino. Spesso nella casa del defunto, dopo la cerimonia, si organizzava un pranzo per i parenti giunti da fuori paese. I famigliari più stretti usavano portare il lutto per almeno un anno. Le donne vestivano abiti scuri, mentre gli uomini si cucivano una striscia nera attorno alla manica sinistra. Più tardi, cambiata la moda, bastava solamente un nastrino dello stesso colore sul bavero sinistro della giacca. Per la mentalità di allora, il non portare il lutto, significava offendere la memoria dello scomparso.

Qualche persona, nel proprio testamento, disponeva che, al termine della funzione, oppure nel trigesimo, fosse donata, ai paesani una piccola quantità di sale (ciarità de sal).  Al momento di usarla bisognava recitare una preghiera in suffragio del defunto. L’usanza di lasciare qualcosa che ricordasse il defunto ha origini molto antiche.

Già nel 1300, nella zona di Mezzana, in val di Sole, parecchie persone disponevano nel proprio testamento che fosse offerto un pasto con pane vino carne e formaggio a tutti i partecipanti al loro funerale. Spesso, quando moriva un capofamiglia, i vicini aiutavano gratuitamente la vedova nei lavori di campagna. Il forte attaccamento della nostra gente verso i defunti si rivelava pure osservando i camposanti dei piccoli paesi. Questi cimiteri non avevano le grandi cappelle o gli splendidi monumenti funebre delle grandi città, ma, nella loro “povertà”, erano sempre ben tenuti.

Piero Turri