Giorgio Brunelli, a Mezzolombardo uno degli ultimi “Moleta”

Giorgio Brunelli, a Mezzolombardo uno degli ultimi “Moleta”

67 ANNI TRA FORBICI E COLTELLI, PIAZZE E RICORDI

Nel paese di Mezzolombardo, in molte valli del Trentino e pure tra i tedeschi del vicino Alto Adige, è sufficiente dire “Moleta” e sono in molti a pensare subito a lui, a Giorgio

Brunelli, uno tra gli ultimi (e in zona non è sbagliato dire l’ultimo) testimoni di una tradizione secolare, che ha affondato le proprie radici partendo dalle corti di Rango, per arrivare nelle valli alpine e nelle piazze di paese.

«Vengo da una famiglia di arrotini “moleta” da generazioni. C’erano mio nonno, mio papà, i miei zii, perfino i miei fratelli. Solo l’ultimo di noi non ha fatto questo mestiere. Gli altri sì. Ma adesso sono rimasto solo io» racconta con la voce ferma, ma punteggiata di una certa nostalgia.

La sua è una storia, come si è anticipato, avviata nel cuore del Bleggio, com’è l’abitato di Rango, borgo ad oggi abitato da circa 150 anime e, come molti paesi del Bleggio, noto ancor oggi per essere la patria storica dell’arte degli arrotini trentini.

«Già mio nonno, ai suoi tempi, veniva qui nella Piana Rotaliana. Poi toccò a mio padre, per tutta la vita. Girava le valli fino a Fiemme e anche in Val di Fassa.»

Dalla bicicletta alla Topolino: la storia che gira

«Abbiamo iniziato andando in bici – ricorda Giorgio -. Io avevo una bicicletta con la mola: si toglieva una ruota, si montava una catena diversa e pedalando si faceva girare la pietra affilatrice. Qualcuno la conserva ancora, sai?»

Poi arrivò la Topolino Belvedere, una piccola conquista di mobilità. «Quando mio fratello tornò dal militare, comprammo l’auto. Un meccanico del paese ci fece una modifica per montare e smontare il motore Condor che faceva girare la mola. Con quella arrivavamo fino in Val Gardena e perfino al Brennero.»

«In quegli anni il lavoro non mancava mai. C’erano posti dove nessuno era mai stato e ci aspettavano. E anche se in Alto Adige qualcuno l’italiano non lo parlava, ci si capiva lo stesso. Bastava avere un po’ di tatto.»

Da Mori a Mezzolombardo: la bottega che dura da 40 anni

«Uno dei miei fratelli si trasferì a Mori, l’altro purtroppo è morto giovane. Quando mi sono trovato da solo ho deciso di fermarmi. Dopo tanto girare e cercare, ho trovato un posto qui a Mezzolombardo. Prima in affitto, poi definitivo e adesso sono più di 40 anni che sono qui.»

Ma la routine, all’inizio, rimaneva quella di sempre. El Moleta ricorda che «La mattina andavo a suonare i campanelli per raccogliere coltelli e forbici. Il pomeriggio li affilavo in bottega. Il giorno dopo li riportavo e ripartivo di nuovo.

Come faceva a ricordare cosa era di chi?

«Avevo un sistema mio. Mettevo tutto su un grande anello – risponde sorridendo -. Ogni forbice con due pezzi rotti davanti, così sapevo da dove veniva. All’inizio mi scrivevo tutto, poi la memoria diventava un secondo istinto. Ma se ne sbagliavi una, le sbagliavi tutte.»

Affilare: un’arte precisa, tramandata per tentativi

Oggi si parla spesso di “mestieri d’arte”, ma per Giorgio l’arte si impara col tempo, soprattutto e molto spesso sbagliando. «Ho imparato da mio padre e dai miei fratelli. All’inizio rovinavo tutto. Mi dicevano: “Dai, prova”. E poi ci pensavano loro a sistemare. Ma se ti piace, il mestiere lo rubi con gli occhi e con le mani.»

Ma affilare, soprattutto le forbici, è un qualcosa di affatto semplice ed immediato. «Devono tagliare perfettamente e basta davvero poco perché non lo facciano più. Serve precisione, pazienza e tante esperienza e manualità.»

Un mestiere che resiste nella memoria

Oggi, a 67 anni di distanza dalle sue prime filature, Giorgio ha deciso che non è ancora arrivato il momento di smettere definitivamente. «Dovrei fermarmi ma non ce la faccio, se penso che è un lavoro che mi ha dato da vivere e, assieme, mi ha regalato tante soddisfazioni. A Egna, Ora, Termeno la gente mi riconosce ancora e mi saluta. Quando ti vedono una volta e apprezzano la tua professionalità, non ti dimenticano.»

E i giovani, secondo lei, perché non si fanno avanti?

«Cercano la sicurezza, uno stipendio fisso. Ai nostri tempi c’era tanta miseria e si lavorava per necessità. Oggi è diverso. Ma questo è un mestiere che andrebbe protetto. È piccolo, è vero, però ha ancora la sua importanza.»

Daniele Bebber